venerdì 6 febbraio 2009

memorie - parte 1

E' difficile trovare le parole per scusare la mia lunga assenza.
Quasi un anno è scivolato via, dall'ultima volta, ma i miei continui mal di testa erano diventati insopportabili e la clinica era l'unico posto dove poter riposare veramente.
Mi sono lasciato disconnettere dal mondo, perchè ne avevo bisogno.
Ora sto molto meglio, sono anche riuscito a finire di ricomporre il Fascicolo: vi ho trovato cose che non ricordavo, o che non volevo ricordare. E' tremendo, come tremendo è il fatto che Romeo sia ancora là fuori, senza controllo.
Ma sono tornato, e ora voglio chiudere la storia per sempre, senza ulteriori indugi.
Alla clinica ho anche avuto il tempo di raccogliere le mie memorie, le memorie dell'utlimo periodo.
Le ho scritte nelle giornate di noia e spero che servano a farvi capire.
I personaggi iniziano a presentarsi e Romeo, lo so, lo riconoscerete subito.
Le pubblicherò man mano, così da darvi modo di assimilare.
Avrete anche il mio punto di vista sulla vicenda.

Quella che pubblico qui è la prima dal punto di vista cronologico, dato che ho sistemato i miei "report" in maniera ben delineata nel tempo.
Mi scuso per averle romanzate un po', ma dovevo combattere la noia in qualche modo.

La seguente memoria vi racconta l'incontro con la persona chiave, quella che mi ha -forse per caso o forse no- trascinato nel vortice.
Siamo nell'inverno del 2007, verso la fine di gennaio.

Comunque, rimanete collegati, perchè presto uscirò a cercare le risposte.




DALLE MIE MEMORIE, GENNAIO 2007:



Discoteca, sono in discoteca.
Non ricordo esattamente perché o con chi sono venuto.
Ma ci sono.
Sono in mezzo alla pista, barcollo fra l’umanità pressata al centro della stanza, fra una spallata alla cicciona e una spinta al ragazzino euforico.
Arrivo non senza fatica al bancone, dove finalmente riconosco Ale.
Mi sorride come se nulla fosse e mi allunga un bicchiere con della brodaglia ammazza-stomaco e una fetta di arancio.
Come a dire “ehi, bevo roba con la frutta tagliata sopra, sono un buongustaio, un intenditore, uno che sa vivere, io”.
Uno schifo tremendo.
Dev’essere Long Island, un’accozzaglia di sapori male assortiti che hanno l’unico scopo di farti perdere un po’ di coscienza.
Schifo, ma me lo scolo quasi in un sorso, così, per togliermi il pensiero.
Via il dente, via il dolore.
Ale non è d’accordo, a lui piacciono i cocktail, Ale è un uomo di mondo e non un topo di fogna come me.
Cerca di comunicarmi le sue profonde convinzioni sulla bontà dei long drinks urlando come un posseduto all’interno della mia cavità auricolare.
Capisco poco comunque, ma per fortuna non mi interessa granché.
Sono mai stato bevitore di cocktail o long drinks, io.
Li bevo, certo, in serate come questa, ma solo per ubriacarmi fino a non dover sopportare di essere in un postaccio del cazzo pieno di gente ridicola della quale mi frega nulla.
Insomma sono una via di fuga, ma non di certo un godimento per le mie papille.
Birra, quella sì che è buona.
Chiara, fresca, dissetante.
E senza un cazzo di orto dentro.
Niente ananas o lime (limoni più piccoli e verdini, vanno di moda, sembra non causino stitichezza, almeno se non infilati su per il culo.).
Poi i superalcolici, quelli mi piacciono, ma senza mischiare troppe merde.
È così buono il whiskey che per rovinarlo con la coca cola bisogna essere subnormali.
Amo la vodka, secca e liscia, e il rum.
Il gin invece fa cagare, serve solo a fare cocktail per fighetti e uomini di mondo.
Poi mi fa vomitare al risveglio, sempre.
Cioè, vado a letto sbronzo, mi rigiro nel letto tutta la notte, poi mi sveglio alle 7 e vomito. Tutte le cazzo di volte.
E sempre alle 7.
Quindi dopo il Long Island ordino un whiskey.
Chiedo un Oban, mi portano un Jack Daniel’s.
Non si può avere proprio tutto dalla vita.
Ale intanto cerca di capire che fine abbiano fatto gli altri mentre io, gli altri, non so neanche chi siano.
Forse ho bevuto troppo a cena, forse è questo mal di testa.
Fatto sta che sono ovattato.
Capisco nulla o quasi, mentre sorseggio il whiskey con ghiaccio (certo, cosa volete, siamo in una discoteca alla moda, il whiskey si beve con ghiaccio).
Mi guardo in giro: sulla destra una ragazza molto bella ma con della scarpe orribili, con tacco quadrato tipo direttrice di scuola elementare. Potrebbero anche essere marroni, bleah.
Sulla sinistra ale con il volto illuminato, ora dalle luci strobo, ora dal display del suo cellulare. Probabilmente cerca di capirci qualcosa, in questo inferno del cazzo.
Slaccio la camicia e ruoto sullo sgabello, cercando di capire cosa ho alle mie spalle.
Due ragazze, potrebbero essere carine e avere vent’anni al massimo, ballano sexy al centro di un improvvisato cerchio di persone.
Sono cinque o sei ragazzini arrapati, più uno con una faccia da sfigato che quasi mi fa pena.
Lo guardo e mi viene voglia di accompagnarlo a casa.
Vorrei dirgli “cosa ci fai qui?”, poi prenderlo per il braccio e trascinarlo alla macchina, farlo salire e portarlo a casa.
Cosa ci fa qui uno così?
Alto, forse, un metro e sessanta, occhialini e capelli di paglietta marrone che regalano al suo volto delle basette stile Liberty.
È pallidissimo, sudaticcio. E sotto il suo maglione di lana anni ottanta, marrone con righine verdi, si nasconde un tisico.
Ride, poveretto, tutto eccitato che quasi si commuove nel vedere le due ragazzine ballare.
Nemmeno sa che non le avrà mai, che non ne avrà mai una anche solo carina.
Ora ride, cerca con gli occhi lo sguardo compiaciuto e complice degli altri ragazzi che, più sgamati, non lo vedono come essere umano, ma come oggetto di arredamento.
Tipo il lampadario, o il divanetto.
Lui continua a guardarsi in torno, tutto felice.
Presto comincerà a farsi qualche domanda e, a meno che non sia uno stupido e pieno di sé, inizierà anche a capire perché non potrà mai avere una come la ragazzina con la canottiera grigia.
Perché non è solo brutto, ma dalla faccia si vede che è anche insipido, scialbetto.
Si veste malissimo, già per questo potrebbe non scopare mai a Milano (ahh! le milanesi non hanno il cuore), poi deve essere anche povero, visto che non vedo firme alla moda sui suoi capi.
Certo, perché un conto è vestire male, un altro è vestire male firmato.
Comunque, sono troppo ubriaco per cercare di convincere il ragazzino ad andare via, a scappare da quelle ragazzine belle e senz’anima (citazioni di altissimo livello) che non avrà mai.
Sono troppo rincoglionito per suggerirgli di stare con gli amici all’oratorio e magari di imparare a suonare la chitarra, così almeno potrebbe un giorno avere un ruolo all’interno della società.
Ma siccome sono anche io un senza ruolo, e sono anche ubriaco e rincoglionito, smetto di pensare a quel povero ragazzo e cerco di capire le intenzioni di Ale, che intanto ha finito di sditalinare il cellulare.
“Sono fuori a fumare, andiamo a beccarli”.
“Ok” rispondo io, facendo il pollice alla Fonzie.
Quando sono stonato tendo a diventare una sorta di Fonzie dislessico e con problemi di aerofagia.
Ale si scosta dal bancone, mette nel taschino della giacca il suo telefono e si dirige verso l’uscita.
Io provo a seguirlo, in mezzo ai culi delle persone che mi sbattono contro, ognuno col suo ritmo.
Un ragazzo con una giacchetta di pelle dall’odore nauseante mi viene addosso, mi abbraccia e mi stampa un bacio sulla guancia: “grande!”, mi urla.
Ho l’impressione di conoscerlo, gli butto un “come va?”, lui risponde, io non capisco.
In tutto questo scambio insensato, ho perso di vista Ale.
Mi accorgo di essere proprio in mezzo alla pista da ballo e, non so perché, non penso ad andare fuori, dove gli altri mi aspettano bruciando le sigarette.
Penso che finito di fumare gli altri sarebbero tornati su.
Quindi mi siedo di nuovo allo sgabello, appoggio le braccia sul bancone, ordino un altro whiskey.
Il barista mi riconsegna la tessera (nei locali alla moda si usa così, si fa tutto con la tessera) ma io non riesco ad afferrarla, per via delle cannucce alte un metro che ho davanti al braccio.
Sposto le chiappe dal sedile, abbasso un piede e mi chino sul ginocchio.
Un tacco da 12 cm tenta di dividermi le nocche della mano.
Non so se avere un’erezione o incazzarmi con la bimba che, presa dall’euforia della serata, si sposta sui trampoli tutta eccitata senza badare alle mani degli stronzi che raccolgono le tessere dal pavimento.
Mi alzo, la vedo.
No, non la ragazzina con i tacchi, ma la ragazza che le sta dietro.
Imbronciata, occhi lucidi, sguardo fisso sul bancone.
Bellissima.
La fisso, ma non per farmi notare, come si farebbe in questi casi.
No.
Io la fisso perché non riesco a smettere di guardarla.
Ha degli occhi stupendi, sono così scuri e lucidi da riflettere tutta la luce che c’è.
Si gira e mi guarda.
Imbarazzo, strano, di solito non mi imbarazzano questi scambi di sguardi.
Allora penso che sia meglio fare una faccia da duro, d’altronde sto bevendo whiskey tutto solo al bancone del bar, cazzo.
Cerco di fare la faccia da duro, ma metto su un’espressione da pirla, con una spolverata di Fonzie dislessico. E con aerofagia.
Lei finge di non vedere la mia faccia di cazzo e risponde alzando il mento verso di me, come per dire “che si dice?”.
Io la guardo, elaboro in un nanosecondo e ribatto facendo la bocca alla Marlon Brando nel Padrino.
Voglio chiaramente comunicarle che sto ok.
Comunque lei -forse- capisce, scuote leggermente la testa e si volta per chiamare il ragazzo dietro al banco.
Quello arriva e come se niente fosse si allunga con l’orecchio verso le sue labbra. Non so come faccia a non mettere su una faccia da pirla anche lui.
Poi non capisco cosa ordina, ma posso intuirlo guardando la preparazione dell’intruglio: ghiaccio spaccato, lime (non manca mai eh), menta, zucchero, soda e rhum.
Lei allunga le dita sottili sul bicchiere, lo afferra e si volta.
Sorride ancora e stavolta sorrido anch’io, niente Fonzie leso o faccia da ebete.
Comunque sia, l’ho persa. È già svanita nella bolgia, nei colori e nelle luci del locale.
Potrei finire di colpo il whiskey, alzarmi e andare a cercarla. Ma non lo faccio, non mi sembra il caso. Lei è stata semplicemente carina con me, voglio dire, non si può nemmeno più ammiccare e chiedere come va agli sconosciuti al bancone del bar?
Mentre rifletto su questo e su altre questioni di importanza vitale, arriva Ale con il resto della compagnia.
Ora li riconosco tutti, più o meno.
Flavio, Missile e Andrea.
Ridiamo e scherziamo cercando di urlare più forte che possiamo, così almeno c’è speranza che qualcuno senta. Però le parole escono frammentate delle bocche, che si capisce niente; i timpani devono rispondere a troppe frequenze per badare a quelle di una sola misera conversazione.
Beviamo ancora, ma quando sono sull’orlo di abbandonare 2 o 3 dei 5 sensi mi fermo. Non voglio vomitare domani mattina alle sette (sì cazzo, forse ho bevuto del gin).
Tra una bevuta e una battuta del Missile, il quale si scoperebbe qualunque essere, vivente o no, arrivano le 4.
Il locale sta per chiudere e decidiamo così di andare fuori dalle palle, anche perché l’ubriachezza da molesta sta diventando “floscia”, quindi sentiamo il bisogno di andare a casa a riposare le membra per qualche ora.
Appena sceso l’ultimo gradino della scalinata che porta all’ingresso la rivedo, appoggiata al muro, che fuma una sigaretta mentre trattiene le lacrime.
Mi fa tenerezza, è dolce.
Le passo in fianco e saluto, non so perché.
Lei ricambia dicendomi un semplice “ciao”, con naturalezza, come se già ci conoscessimo. Senza pensare le chiedo se sta bene, lei fa di sì con la testa e io non riesco a dire nulla di sensato se non “buonanotte”.
Tra i sorrisi e le battute degli amici che mi chiedono chi è la ragazza, mi avvio rapidamente alla macchina, anche perché comincia a nevicare.
È neve soffice, fiocchi che cadono con leggerezza e si posano sull’asfalto gelido.
Mi siedo nella macchina con fatica, il cappotto elegante che indosso mi sta scomodo, non sono tipo da vestiti eleganti, non riesco a muovermi impacchettato come un damerino.
Mi cade il cellulare dalla tasca, bestemmio, lo rimetto via e mi accendo una sigaretta. Cerco intanto di far funzionare i tergicristalli per spostare la sottile coltre bianca dal vetro. La luce del lampione di fronte entra dal parabrezza e mi fa socchiudere gli occhi.
Non riesco a capire perché, ma devo tornare dalla ragazza.
Esco dal parcheggio di fretta, giro l’isolato e passo davanti all’ingresso del locale. Riesco a parcheggiare in qualche modo.
Mostro al buttafuori del “lips” il timbro che ho sulla mano destra: “stiamo chiudendo” è tutto quello che riesco a decifrare, prima di vederla spuntare dall’uscita del club.
Mi vede, ci guardiamo.
Viene verso di me camminando con la testa bassa, mentre precede un gruppo di cinque o sei persone, forse amici suoi.
È vicina a me, ne sento il profumo e stavolta non esito: “sei sicura che va tutto bene?”. Lei risponde di no, “portami via” mi dice.
Camminiamo a braccetto, svelti, verso la macchina.
Sono incredibilmente calmo anche se la situazione è davvero strana.
Non ci penso, semplicemente.
Non penso a quanto inusuale sia conoscere in questo modo una persona, portarla via da un posto, dai suoi amici (o dai suoi nemici), dalla sua notte.
Tutto con due parole, in una frazione di secondo.
Mentre inspiro dal naso l’aria gelida della neve sento dei passi, poi una voce: “dove cazzo vai!?!”. Mi volto e vedo un tipo che corre verso di me, verso di noi.
Lo colpisco.
Forte, diretto, penso sul naso.
La mia mano emette un suono da brividi, ma il suo naso la supera.
Tutto in una frazione di secondo, via, senza pensare.
Sento delle urla, ma lei è già alla macchina. Salgo anche io, i buttafuori sono lontani, il motore è già acceso e in un attimo siamo invisibili.


Silenzio.
Non ci diciamo niente.
La macchina scorre morbidissima quasi senza emettere suoni, se non quello della neve che si schiaccia sotto il peso delle ruote.
Io mi tocco la mano, cazzo, devo essermi rotto qualche cosa. Si sta gonfiando.
Ma poi penso al suo naso e mi rincuoro. C’è sempre qualcuno che sta peggio di te nel mondo.
Provo a parlarle, le chiedo “dove andiamo”.
Lei mi risponde che non andiamo da nessuna parte.
Benissimo, penso, ho rapito una sconosciuta e spaccato la faccia ad un ragazzo così, per non andare da nessuna parte.
Le chiedo chi era quello che ora ha il naso rotto, lei dice un coglione, io non capisco bene ma mi adeguo. Anche perché sono quasi le 4.30.
Guido, senza pensare.
Accendo lo stereo, forse per rompere la tensione, la musica si diffonde e sento le parole della canzone, mi suonano così tristi, non so perché:

Stranded in this spooky town
Stoplights are swaying and the phone lines are down
This floor is crackling cold
She took my heart, I think she took my soul



Continuo a guidare.
Senza accorgermi di nulla arrivo sotto casa mia.
Parcheggio e scendiamo, ancora senza dire una parola. È tutto così surreale, la neve, il silenzio di una domenica mattina, il mal di testa, lo stomaco ormai sottosopra.
Infilo la chiave, la ruoto nella serratura e siamo dentro.
Faccio le solite cose, chiavi sul muretto, luce, via la giacca.
Lei tiene su la sua e si incammina con me verso la stanza.
“Vuoi qualcosa da bere? da mangiare?’”, chiedo.
Mi dice di no, è a posto così.
Non scendo in cucina quindi, ma rimango lì, sotto l’arco che divide lo spazio d’ingresso con la stanza.
Mi volto per accendere la luce della lampada e sento che lei si sta togliendo la giacca e che la sta buttando sul letto.
Torno a guardarla mentre appoggia la borsa vicino ai piedi e mi sorride, dolcissima, gli occhi le brillano come quando l’ho vista al bancone.
Nella mia testa continuo a pensare che la situazione è dir poco bizzarra.
Non ci diciamo un parola.
Ma sono così stonato che in fondo tutto questo non mi sembra poi così strano.
È tutto soffice, come la neve che cade fuori.
Siamo vicini, lei allunga la mano e mi tocca il braccio.
Cazzo, mi gira la testa, non capisco bene in che dimensione sono.
Potrebbe anche essere un sogno, magari sono tornato sbronzissimo e sto solo dormendo.
Magari sto sognando proprio la ragazza che ho visto al bancone.
Ecco perché è tutto così strano.
Penso di aver capito.
Ma poi si avvicina, sento il suo odore.
Mi bacia.
Le labbra sono morbide, soffici come la neve ma calde dentro.
Muovo la mia lingua cercando di seguire la sua.
Piano, in maniera delicata, non come si dovrebbe fare con una conosciuta in discoteca e della quale si ignora il nome.
Lei si allontana un po’ da me, mi guarda con quegli occhi lucidi e buoni, accenna un sorriso e poi schiude leggermente le labbra.
Riesco ad inalare il suo respiro, è dolce.
Allora non resisto, mi avvicino, la bacio io.
Lei si lascia baciare, stiamo andando un po’ più forte adesso e le sue braccia attorno al mio collo si stringono.
Mi accarezza la testa, la tira leggermente.
Io mi faccio trasportare, così scivoliamo sul letto, proprio sopra la sua giacca.
Ci baciamo sdraiati uno in fianco all’altro. Poi lei si sposta piano, trascinando le mie mani coi suoi fianchi, fino a quando è sopra di me.
I capelli scuri e lisci le cadono sul viso e lei con la punta delle dita li riporta dietro all’orecchio.
La mia mano, ancora un po’ fredda e dolorante, sale lungo la sua schiena accarezzandola e sentendo coi polpastrelli come la pelle reagisce al freddo.
Si increspa leggermente, anche quando scendo a toccare i muscoli concavi sulla spina dorsale.
Si toglie la maglia, poi toglie la mia.
Comincio a baciarle il collo e mentre la mia bocca si riempie di aromi, riesco a toglierle il reggiseno.
Ora i corpi si schiacciano, uno contro l’altro, decisi.
Posso sentire il suo calore. Il mio petto preme sul suo.
Io non penso a nulla, mi lascio andare, senza badare più alla situazione.
Sono troppo preso dal sapore di quella pelle olivastra e liscia come la seta.
Sono in una specie di dimensione ovattata e calda.
Quasi non mi accorgo che siamo nudi, non penso a nulla.
Quando sono dentro di lei, la sento afferrarmi le scapole e stringermi piano la carne con le unghie.
Non penso a nulla.
Mi allungo un po’ sopra di lei e sento ancora i suoi seni quando la bacio appena sotto la mascella.
La sua bocca è contro il mio orecchio, la sento sospirare e mi fa girare la testa, come se avessi la febbre.
Chiudo gli occhi e non penso a nulla.
Probabilmente ci siamo addormentati così, uno sopra l’altro, senza pensare.


Dopo un imprecisato lasso di tempo, riapro gli occhi.
Con fatica, perché mi sento le palpebre incollate, le labbra asciutte.
La luce soffusa della lampada non c’è più.
C’è invece un raggio che come una lama attraversa i fori delle persiane e colpisce il lato sinistro del mio corpo.
Quando la nebbia svanisce dai miei occhi, mi giro.
E vedo che anche lei è svanita.
Non c’è nel letto, non la trovo al bagno.
La cucina e la stanza adiacente sono vuote, sembra che nessuno oltre a me sia mai stato in quella casa.
Per un attimo penso di essere matto, di aver davvero sognato tutto.
Devo smettere di bere, cazzo.
Poi guardo il tavolo e la sua superficie liscia è interrotta da un foglietto ricurvo.
“grazie per tutto, sei il mio cavaliere”.