venerdì 10 luglio 2009

Notre vie est un voyage
Dans l’hiver et dans la nuit
Nous cherchons notre passage
Dans le ciel où rien ne luit


Cantavano così le Guardie Svizzere passando sul fiume Beresina.
Ignare della loro sorte, intonavano un triste canto che si rivelò un presagio di morte.

Forse tutti noi siamo all'oscuro, non sappiamo, non possiamo prevedere.
E decifrare i presagi è impresa davvero ardua.

Per questo voglio che tutti voi sappiate, perchè tutto questo vi appaia molto più chiaro di un presagio, di un lampo, di un'intuizione.

Voglio che si sappia.



Il seguente scritto è il secondo racconto delle cronache della follia e descrive il secondo incontro di Romeo con il suo Passeggero Oscuro.


LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #2

La seconda volta avvenne in maniera diversa, fu come un flusso cosciente, controllato, consapevole, caldo, quasi piacevole.
Il primo omicidio aveva rappresentato la rottura delle pareti che arginavano le acque, proprio come succede alle dighe, quando la pressione del fluido vince la coesione del calcestruzzo.
Le acque si erano riversate sul fondovalle, seguendo il pendio, controllate solo dall’accelerazione gravitazionale. Il bacino era stato svuotato, andando a creare una nuova realtà, stavolta dinamica e continua nel tempo.
L’evento improvviso e funesto lasciava posto allo scorrere infinito delle acque, non di certo ancora calme, ma consapevoli della loro libertà di scorrimento e prive delle costrizioni che annullavano tutte le sfumature dei moti laminari e turbolenti.

Clara la incontrai in modo casuale, in un pomeriggio assolato e afoso di metà giugno.
Non saprei spiegare con precisione il motivo per il quale mi ero recato ai giardini di Porta Venezia, forse avevo intenzione di mescolarmi un po’ alla gente per avere nuovo materiale su cui scrivere, oppure avevo semplicemente voglia di sentirmi un essere umano, uno di quelli che prova godimento nel passeggiare sotto le foglie delle querce del parco.
Camminavo inspirando l’aria lentamente, cercando di cogliere le differenze di temperatura fra le zone assolate e quelle d’ombra, mentre, con la coda dell’occhio, vidi un manifesto che colpì la mia attenzione e annullò per un attimo il lampo giallo che continuava ad apparire ogni volta che il mio bulbo oculare sinistro cercava di vedere oltre il normale raggio d’azione.
Mi avvicinai alla struttura di metallo che ospitava il poster e notai con piacere che l’affissione riguardava una manifestazione di musica dal vivo, la quale era piuttosto interessante per almeno un paio di ragioni: era gratuita e le band elencate erano tutte più o meno tutte degne di nota.
Cosa rara, per altro, in questa città che costringe il cittadino ad uniformarsi all’iconografia del dandy fighetto.
Concerti interessanti, che siano di musica leggera, jazz o quant’altro, erano difficili da trovare a Milano, se si escludono due o tre locali che con coraggio spingevano un certo tipo di cultura.
La piega tremendamente asettica della città era uno scudo spaziale contro la cultura giovane, quella reale, non quella fatta solo di discoteche e Lacoste.
Tutti, a partire dai cittadini fino ad arrivare alla giunta comunale, avevano contribuito a creare una città fantasma, costruita sull’apparente benessere, sul machismo, sull’immagine e, soprattutto, sul tornaconto economico.
Di sostanza, c’era ben poco. Era tutto fumo negli occhi.
I divertimenti giovanili erano prestabiliti, prestampati, come ordinati dalla città stessa.
La sera c’era realmente poco da fare, esistevano la via dei locali notturni e la via dell’aperitivo. Il massimo della goduria era eseguire entrambe le soluzioni, una di fila all’altra.
I locali rispecchiavano chiaramente l’essenza della città, rappresentando al meglio il concetto del vuoto che appare magnifico e ricco di sostanza.
Perfino il pane che si consumava in città sembrava sottostare alla stessa attitudine, aveva infatti una bellissima scorza croccante ma, all’interno, c’era nient’altro che aria.
Le discoteche erano quindi posti fasulli, di cartapesta, dove per ammassarsi a morire di caldo bisognava pagare uno sproposito ed essere vestiti come ai matrimoni.
All’interno dei club si poteva intravedere, se ancora non si avevano gli occhi intrappolati nelle cateratte che la città andava posando sulle pupille dei propri cittadini-zombie, tutta la verità che c’era dietro all’apparire: giovani donne, uomini, ragazzini e persone più anziane, tutte con il “vestito della domenica” (come si usava fare 50 anni fa) a far finta di essere meglio di quello che si è in realtà.
Tutti felici di sembrare dei piccoli Briatore, dei Berlusconi in erba, con il loro cocktail -finto- raffinato in mano, il loro modo di fare spavaldo. Era davvero lo specchio della cultura cittadina, nel quale vi erano riflessi i principi fondamentali dell’etica milanese:
_ Avere sempre, per quanto possibile, una bella presenza, un aspetto curato.
_ Mostrare di essere benestanti (anche se non lo si è) con i modi di fare e con l’abbigliamento. Meglio una camicia firmata che una dozzina di magliette normali.
_ Sorridere sempre, per dare l’idea di successo, di felicità, di “bella vita”.
_ Scegliere con cura le persone che vi stanno vicino. Sarebbe meglio se fossero anche loro dei vincenti, ma mai migliori di voi, altrimenti rischiereste di passare inosservati e di non spiccare nel gruppo.
_ Se avete una Porsche, per Dio, appendetevi le chiavi al collo!
_ Sniffate cocaina, i potenti lo fanno, quindi sarete potenti anche voi.
_ Non parlate mai di politica, è tremendamente out, al massimo elogiate qualche potente che ha fatto tanti soldi, in modo da rendere ulteriormente chiaro qual è il vostro stile di vita. Voi siete dalla parte di chi vince, ricordatevelo.
_ Il prezzo delle cose è direttamente proporzionale alla loro validità.
_ La musica bella è quella che si ascolta nei posti belli. Al contrario, in un posto senza selezione all’ingresso non ci sarà mai musica decente. D’altronde potrebbe essere un posto da barboni.

Sembra esagerata questa lista, una fiera delle banalità, una presa in giro, una caricatura grottesca dei new-yuppies.
Purtroppo invece l’elenco riporta fedelmente le basi della cultura che in città andava per la maggiore, senza esagerazioni o forzature di alcun tipo (nemmeno per il punto 5).
È pleonastico precisare che la città non era fatta solo d’immagine e di apparenza, c’era chiaramente l’altra faccia della medaglia, una cultura sotterranea che strisciava, seppur con fatica, attraverso le vene di Milano e dei milanesi.
C’erano posti dove ancora i giovani potevano andare per aggregarsi, ascoltar musica, fare arte o semplicemente rilassarsi senza dover dimostrare di essere i più fichi o i più ricchi del quartiere.
Il locale che ospitava la manifestazione era uno di questi.
In quel posto, situato sulle rive artificiali del lago cittadino, ci avevo trascorso molte serate, spesso cercando di uccidere i miei soliti demoni con l’alcol.
Cercavo di avvelenarli, per farli star buoni un po’, e alle volte ci riuscivo.
Così ci andavo sempre volentieri, la birra era a buon prezzo e le band che suonavano erano sempre di alto livello.
Ci avevo sentito alcuni dei miei gruppi preferiti e sicuramente tutta la scena post-hardcore del nord Italia era passata dal suo palco.
Ero quindi incuriosito dalla lista di nomi riportati sul cartellone, più della metà li conoscevo, erano band che apprezzavo e che non mi sarebbe dispiaciuto vedere assieme in un’unica serata.
Il festival si svolgeva la sera stessa e, proprio mentre pensavo che ci sarei andato con piacere, sentii una voce femminile e ansimante alle mie spalle: “Uh, figo, suonano anche gli Zu!”.
Girai il capo rapidamente e vidi la ragazza che era dietro di me, stava sudando ed era vestita in maniera sportiva. Evidentemente aveva appena smesso di correre, le si vedeva ancora il pallore dello sforzo spalmato sul viso.
Aveva una canottiera di cotone bianco dalla quale risaltavano le spalle abbronzate, mentre più in basso spuntavano dei piccoli seni quasi appuntiti.
Era molto carina, con i capelli castano chiaro legati a formare una coda di cavallo che andava ad infrangersi sull’attaccatura del collo.
Sorrideva, sembrava una persona gioviale.
Le dissi che anche a me piacevano gli Zu e aggiunsi che sarei sicuramente andato a sentirli quella sera.
Lei rispose che non poteva venire, dato che la sua coinquilina, con la quale si sarebbe dovuta recare al locale, era partita e ora non aveva più il passaggio in macchina. Mentre pronunciava le parole “passaggio” e “macchina” fece una smorfietta, come quelle che spesso fanno le ragazze carine, quando sbattono le ciglia e fingono un timido dispiacere.
C’era qualcosa di esplicitamente sessuale in quella frase, e capii subito che in fondo era una richiesta, anche abbastanza sfrontata.
Le dissi che l’avrei passata a prendere io, senza problemi, tanto ero solo e non avevo certo problemi di posto in auto.
“Veramente?!? Come sei gentile!”, rispose tutta eccitata, passandosi la mano sui pantaloncini prima di allungarla verso di me.
“Mi chiamo Clara”.
“Io sono Romeo” risposi.
Quella sera, senza nemmeno rendermene conto, alle 21 ero sotto casa di Clara.
La vidi arrivare dal lato destro della mia auto, aveva una gonna lunga di colore scuro, una grossa borsa a tracolla e portava ancora i capelli legati in alto.
Cazzo, dissi dentro di me, è proprio carina.
Quando salì in macchina Clara mi salutò baciandomi due volte le guance e, se devo essere sincero, mi imbarazzò un poco quel contatto imprevisto.
Mentre guidavo verso la zona est della città, lei cominciò a farmi un sacco di domande.
Dove abiti, cosa fai nella vita, sei di Milano, vivi da solo, cos’hai studiato e tutte quelle menate.
Io risposi con una serie infinita di balle e, proprio in quel preciso istante, realizzai cosa stava accadendo.
Il suo profumo, doveva essere sandalo o qualcosa del genere, mi entrava nelle narici e mi pizzicava le mucose, facendomi innervosire ad ogni respiro.
Lei intanto parlava in continuazione, come una macchinetta.
Diceva anche delle cose intelligenti, non era proprio una stupidotta, ma il mio pensiero ormai era irrimediabilmente fisso a quella sera di primavera, quando la bestia che ho dentro divorò la mia umanità per uscire dalla gabbia ed avventarsi sulla sua prima preda.
Non riuscivo a pensare ad altro.
Rivedevo di continuo le immagini di quel corpo nudo e abusato che giaceva nel letto di una stanzetta del condominio studentesco della Bocconi.
La belva quella volta mi prese alla sprovvista, di contropiede, perché non mi aspettavo nulla del genere e perché non sapevo di avere il male dentro.
Ma questa volta giocavo a carte scoperte con il Passeggero Oscuro.
Lo sentivo muoversi dentro di me, mentre mi riscaldava il sangue attraverso le vene, il cuore, le arterie, i capillari.
La sensazione era di calma, forse apparente, ma sentivo di avere tutto sotto controllo.
Presi una strada secondaria, andandomi ad infilare in un parcheggio anonimo nei dintorni dell’idroscalo.
Il cielo stava ormai diventando nero e le piante che circondavano il piccolo spiazzo mi schermavano dai raggi lunari, aiutando l’oscurità ad abbracciarmi.
Quando spensi il motore sentii la prima vampata di calore salirmi dal profondo delle viscere fino alla punta dei capelli.
Il sudore cominciava a colare dalla fronte e dalle basette, andando a raccogliersi in piccole goccioline che ancora avevano dimensioni adatte per sopravvivere alla gravità rimanendo attaccate al mio viso.
Ma io le sentivo crescere e formare dei menischi flosci per effetto del loro peso acquoso. Stavano per cadere, per andare a schiantarsi.
Tutto intorno a me stava per cedere ad una forza più grande, le gocce di sudore non erano le sole ad essere governate da qualcosa di superiore.
“Siamo già arrivati?” mi chiese la ragazza con aria ingenua e inconsapevole.
Io le risposi che avevo parcheggiato proprio dietro il locale per evitare la coda del parcheggio principale.
Lei però in quel momento capì qualcosa, probabilmente riuscì a vedere il lampo del demone nei miei occhi, oppure doveva essere stata la mia voce tremante a tradire il mio stato di euforica mostruosità.
Vidi sul suo volto la paura.
E quell’espressione accese in me fortissimo e improvviso il desiderio di farle del male.
Volevo picchiarla e farla soffrire, volevo ucciderla.
La sete di morte si era manifestata in maniera chiara, senza indugi e stavolta più piacevole rispetto alla prima esperienza.
Come per ogni cosa, la prima volta è sempre troppo pervasa di eccitazione adrenalinica per godersela appieno.
Con il tempo ci si abitua, l’euforia c’è sempre, ma si riesce a gustarsi meglio il momento.
Io mi stavo godendo il momento.
Mi nutrivo della sua paura e sentivo un piacere irrefrenabile nel sapere che fra qualche piccola frazione di secondo lei sarebbe morta, avvolta nella mia stretta o sotto i colpi delle mie nocche dure e ossute.
Senza dire una parola, la ragazza ruotò il suo corpo magro facendolo scivolare sul sedile mentre con una mano tentava di raggiungere la maniglia della porta.
Mi diede le spalle.
Io fui rapidissimo: le passasi il braccio destro attorno al collo, prendendola da dietro.
Poi, con la mano sinistra, mi aiutai nel serrare quella tenaglia di ossa e carne.
Dovevo aver stretto molto forte, perché sentivo scricchiolare tutte le sue ossa all’interno della mia morsa.
I suoi piedi si muovevano senza sosta e le sue ginocchia sbattevano epilettiche contro ogni parte dell’automobile, fino a che la ragazza riuscì ad inarcarsi facendo leva puntando i talloni sul cruscotto.
A quel punto persi completamente il controllo.
Ero eccitato, sentivo di avere un’erezione e sapevo che ero solo all’inizio.
Godevo, cazzo, perché avevo il controllo completo. Lei non poteva sfuggirmi e quel gesto di ribellione alimentò maggiormente il diavolo che mi portavo dentro.
Avvicinai di colpo la mia bocca alla sua faccia e con un morso le strappai tutto lo zigomo sinistro.
Avevo serrato i denti con una brutalità tale da scheggiarmeli nell’urto fra le due arcate, perciò ero riuscito a lacerare tutto il tessuto che avevo addentato.
All’interno della mia bocca sentivo la sua carne e il suo grasso sottocutaneo mischiarsi con le mie mucose.
Non uscì molto sangue, ma il grasso che sgorgava era ripugnante, giallo e denso. Senza sosta continuava ad affiorare dalla lacerazione, producendo un effetto davvero diverso dalle ferite che siamo abituati a vedere quando ci tagliamo senza andare troppo in profondità.
Era orribile.
Lei aveva urlato in maniera disperata, più che per il dolore per la consapevolezza della fine.
Stava realizzando che il suo viaggio era al termine, che la sua vita di esile e giovane ragazza si stava spegnendo per sempre, all’interno di un’automobile dannata, fra le spire di una belva umana.
Era un grido triste, disilluso, come se avesse intravisto per un attimo tutto quello che era davvero il senso della vita: un vuoto infinito.
Mi fece pena, provai dolore per lei, povera ragazza.
Allentai di colpo la presa, sputando pezzi della sua faccia sul sedile.
Attraverso la fessura delimitata dalle labbra sottili e ben disegnate non vi era più parvenza di uno scambio di gas.
Era morta.
La scaricai senza nemmeno scendere, mi limitai ad aprire la porta e a spingere il suo corpo morto sull’asfalto caldo del parcheggio.
In quell’istante entrarono in macchina, di colpo, una decina di zanzare.
Mentre guidavo per uscire dallo spiazzo, mi misi a piangere.
Piansi perché non potevo sopportare la consapevolezza di aver spezzato un’altra vita. Avevo messo fine al percorso di una bella e intelligente ragazza, l’avevo lasciata senza respiro nel mezzo di un parcheggio deserto, con la faccia dilaniata e il corpo ancora caldo, a far da cibo per gli insetti estivi.

Tornai a casa, ancora piangendo.
Ne avevo uccisa un’altra, ero un assassino seriale, un pazzo malato e pericoloso.
Cercai dell’alcol, trovai una bottiglia di brandy, la bevvi tutta nel tentativo di disinfettarmi dal mostro che viveva giù nelle viscere.
Vomitai ripetutamente, continuando a piangere al pensiero di quel corpo atletico riverso come un manichino scaricato per caso in mezzo al nulla.
Poi mi addormentai.
Durante il sonno, sognai di essere su di un vascello in mezzo alla tempesta.
Le onde altissime sovrastavano la prua e invadevano il ponte, prolungando la loro lingua umida fino ai miei piedi.
L’acqua era nera come la morte e risaltava al contrasto con la schiuma bianca che con i suoi rivoli cercava di trascinarmi nell’abisso.
Io mi arrampicavo sempre più in alto, sugli alberi, fino a toccare le vele.
Ma l’abisso si gonfiava in mille enormi pance, pur di venirmi a prendere.
Ero terrorizzato, immobilizzato dalla paura di quell’acqua malvagia che si avvicinava mangiandosi un pezzo di vascello ad ogni bordata.
Alla fine arrivò l’onda più nera e orribile che avessi mai visto e inghiottì tutto quanto.
Il mio urlo muto si bloccò nella laringe, ma in qualche modo servì per riuscire a destarmi dal sonno.
Era mattino, andai al bagno e mi vidi nello specchio.
Avevo l’incisivo superiore destro scheggiato nella sua estremità interna.
Ecco un altro segno tangibile, fisico, reale e corporeo.
Dopo la prima volta mi rimase un lampo nell’occhio, ora avevo anche il dente a ricordarmi chi avevo dentro di me.
La belva.
Il demone.
L’assassino.
Il Passeggero Oscuro.