mercoledì 6 maggio 2009

La primavera è da sempre simbolo della rinascita, della forza della vita che torna prepotente dopo il ghiaccio.
Qui, ahimè, siamo agli antipodi.
La primavera è uno scherzo grottesco, una pozione velenosa che devia le menti.
Il seguente racconto è il primo degli scritti che compongono le cronache della follia.

Ci siamo, siamo entrati nel suo mondo.

P.s. Il periodo è quello giusto, prestate attenzione alle cose e, se potete, non innamoratevi degli sconosciuti.


LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #1


La prima volta avvenne in modo quasi naturale, come una pietra che prende a rotolare lungo un pendio.
Un’azione governata da un qualche tipo di forza, una gravità oscura che precipita gli eventi facendoli sfuggire al controllo degli attori.
Era un’inerzia sconosciuta, come quella che avvolge le menti delle persone normali quando si trasformano, anche per un attimo solo, in qualcosa di oscuro e imprevisto.
In quei momenti mi sembrava tutto normale, come un riflesso spontaneo e necessario.
Probabilmente furono le sue azioni, i suoi movimenti, le sue parole a mettere le cose sul piano inclinato. Queste ultime, non potendo vincere lo scivolamento, s’affossarono completamente in un abisso, scorrendo quasi senza rumore fino alla fine della base.

Ad aprile cominciavano a sentirsi i profumi del risveglio, la natura diffondeva i suoi colori ammalianti e gli esseri umani cercavano di seguire i loro istinti, facendosi trasportare dai sensi e dall’oscura regia dell’ipotalamo.
Io mi trascinavo lungo le strade della città, cercando di schivare le delusioni e sopprimendo il malessere che sentivo di avere laggiù, da qualche parte.
Ero diventato un tipo solitario da quando per qualche ragione stavo abbandonando la vita reale.
Distinguere il sogno dalla realtà era un’operazione sempre più complessa, che richiedeva ogni volta uno sforzo maggiore, sforzo che io non ero assolutamente più disposto ad offrire in cambio di quella piccola e non trasversale verità.
Avevo amici, qualche ragazza intorno, dei progetti piuttosto reali e una vita nitidamente distinta dal mondo onirico.
Poi sono scivolato e ora mi ritrovavo sempre in compagnia dei miei incubi, loro, quelli che mi accompagnavano all’interno delle notti più nere e attraverso i giorni più lucidi e luminosi.
Quella sera di primavera l’aria tiepida spingeva la polvere nei miei occhi, mentre le mie narici traevano forse beneficio, forse fastidio, da quel poco che riuscivano a distinguere in quel marasma di molecole organiche svolazzanti.
Mi sedetti sulla lastra di pietra che divideva il sagrato dalla fila di colonne, con in mano una bottiglia, mentre fumando aspettavo che facesse tardi, per poter così tornare a casa senza essermi soffermato troppo a pensare al corso della vita.
Il futuro è terribile quando non si è più adolescenti.
Quando si è giovani si ha sempre la forza di immaginare un futuro che sia migliore della condizione attuale, mentre poi, quando si invecchia, si capisce come funziona, come gira la ruota.
Il domani diventa una giornata sicuramente peggiore dell’oggi; i problemi aumenteranno, si avranno meno soldi o ci saranno più spese, la salute non sarà più salda come un tempo, il viso si riempirà di rughe, i denti faranno male, le donne non si soffermeranno più a sostenere il tuo sguardo, nessuno mischierà la sua carne con la tua.
Tutte le azioni dell’oggi non eviterebbero la decadenza, la sposterebbero solo un po’ in avanti sull’asse del tempo.
E allora si capisce l’inutilità di queste azioni, anzi, forse si potrebbe realizzare e comprendere quanto la ricerca del buon domani sia in realtà un peggioramento ulteriore dell’essere oggi.
La decadenza, fetente, arriverà comunque, ma intanto noi non abbiamo fatto altro che preoccuparci, seguire le regole, andare a letto presto, studiare stupidate su stupidate, lavare i piatti, rifare il letto, comprarci un’auto a rate, uscire con una donna solo perché è l’unica che ci accetta.
Se si conosce il movimento della ruota, tutto questo preoccuparsi e vivere ben bene sui binari appare di colpo uno sforzo inutile.
Io avevo intuito il meccanismo, quindi aspettavo la decadenza seduto sulla panchina di granito, mentre cercavo di rendermi meno spiacevole il mondo bevendo qualcosa di fresco.
La piazza era, come al solito, piena di persone più o meno giovani che passavano il tempo in maniera apparentemente molto serena.
Due ragazze si sedettero accanto a me, a cavalcioni sulla panchina, una con la schiena quasi attaccata alla mia spalla.
Evitavo quasi volutamente di sentire i loro discorsi, con la paura che questi avrebbero potuto turbare la mia inquietudine con la loro frivolezza.
Mi ricordo che accesi una sigaretta a meno di un minuto dal mozzicone appena schiacciato sotto la suola, in modo da distrarmi da quello che mi stava attorno.
La sigaretta finì e in pochi minuti terminò anche la birra che avevo stretta nella mano, per cui decisi che era giunto il momento di avvicinare il venditore ambulante e comprare un’altra bottiglia.
Feci tutte le operazioni del caso e mi accesi un’altra sigaretta, questa volta, forse, per farmi del male.
I miei pensieri si erano fermati sul fumo e, come un moderno Zeno, mi venne una sorta di senso di colpa, una sensazione chiara di quanto fosse stupido e insensato aspirare del fumo maleodorante e nocivo solo perché è un modo come un altro di combattere la noia che accompagna il ticchettio del tempo.
Mentre ero intento in questi pensieri da persona debole (il forte non fuma o se fuma lo fa con grande gusto), mi accorsi che qualcuno mi stava fissando.
Sentivo lo sguardo posarsi sul mio volto, lo percepivo, come si percepiscono gli oggetti vicini quando si hanno gli occhi chiusi.
Non volevo voltarmi perché sapevo che non sarei stato capace di guardare chi mi stava fissando senza fingere una falsa sorpresa, anche perché mi ero accorto da un po’ di quello sguardo.
Poi terminai la sigaretta e appena la schiacciai tra la gomma della suola e il porfido del suolo, voltai la testa.
Chi mi stava fissando era la ragazza che sedeva in fianco a me, a cavalcioni sulla panchina e con aria da stupida.
Avevo creduto fossero in due, tanto più che lei non era quella con la schiena quasi appoggiata al mio braccio, ma era quella che le stava di fronte.
La sua amica doveva essersi alzata mentre i miei pensieri erano fissi sul tabagismo oppure, questo è probabile, ero distratto e non mi ero accorto che la ragazza era da sola.
Tutto questo importa poco, anche perché la sconosciuta pronunciò una frase che mi distolse da tutte le altre faccende: “ma sai che mi sto innamorando di te?”.
La prima cosa che pensai è che questa doveva essere completamente cretina, poi invece mi guardai attorno cercando qualcuno che rideva, in preda alla felicità di aver fregato il suo amico Romeo con uno scherzo banale.
Non era così, l’opzione che si addiceva alla situazione era la prima, cioè la ragazza doveva avere dei problemi di salute mentale, anche perché ce ne vogliono per approcciare in questa maniera uno come me.
All’inizio la buttai sul ridere, ma poi cominciammo a fare conoscenza in maniera piuttosto seria, tralasciando il fatto che questa continuava a ripetere di essere innamorata di me.
Si chiamava Paola, studiava alla Bocconi, era pugliese, cicciottella e pendeva dalle mie labbra, qualsiasi cosa dicessi.
Non mi era mai capitato di fare colpo così in maniera fulminea su di una ragazza, non che fosse un gran colpo a dir la verità, però il mio ego si sentì rinvigorire e per un tempo che potrebbe variare dalla mezz’ora alle tre ore, non pensai più alla miseria degli esseri umani.
Ci conoscemmo un po’, io le raccontai un sacco di balle, le dissi che ero uno studente fuoricorso alla facoltà di fisica, così per evitare possibili collegamenti con una bocconiana (quando mai frequentano i fisici?).
Poi lei iniziò a dire una serie di banalità, di stupidate, di luoghi comuni, mettendo su una faccetta da schiaffi tipica di una cicciottella che si sente carina ed emancipata.
La mia istantanea tranquillità interiore cominciava ad abbandonarmi, sentivo una voglia irrefrenabile di fermare quella sua linguaccia sparacazzate, non riuscivo più a sopportare i suoi discorsi su Vasco (Cristo di un Dio) e su quanto fossi bello.
Decisi che avrei dovuto scoparmela in maniera violenta, lì, sul momento, o al più presto possibile, in modo da non sentirla più parlare.
Nel giro di pochi minuti, con una perizia ed un’abilità sconosciute alla mia normale personalità, le chiesi di lasciare la piazza per trasferirci nella sua stanza del dormitorio universitario.
Arrivammo allo stabile quando ormai avevo smesso di ascoltarla e riuscivo solo a pensare che l’avrei scopata per farle del male, per violentare il suo molle corpo di bocconiana banale.
Fu gentile con me, anche quando cercò di essere conturbante, mordendomi le labbra, cercando di farsi desiderare.
Riuscii a raggiungere l’erezione solo perché pensavo al male che le avrei fatto, sbattendola, schiaffeggiandola, lasciandole i segni di quella notte.
Mentre stava sotto di me, mentre la chiamavo con le peggiori parole che mi venivano in mente, mentre il mio sudore le colava sulle tette bianche, mentre sentivo le sue mucose diventare sempre più molli, fui sopraffatto da una vampata di calore che mi fece girare la testa e salire un demone dallo stomaco.
Non mi ero mai sentito così, ero come ubriaco al centro di un inferno in cui tutto si muoveva a scatti per l’effetto di una qualche malefica luce stroboscopica.
La sua faccia era spaventosa, riuscivo appena a distinguerla, era orrenda, era un diavolo. Aveva il trucco completamente sbavato, le guance rosse per gli impatti con i palmi delle mie mani e il rossetto spalmato sulla bocca come ce l’hanno i pagliacci del circo.
Orrenda, era orrenda.
Una specie di mostro molle, nel quale infilavo il cazzo con tutta la forza che avevo, cercando di non farmi spaventare dalla luce sinistra che invadeva il letto.
Sentivo i suoi gemiti, ora di godimento, ora di dolore, e non ne potevo più.
Le mie mani, con una naturalezza propria di un riflesso, si portarono al suo collo, stringendo fino a farmi male, fino a sentire il suono ripugnante delle articolazioni delle falangi sotto sforzo.
La sua spaventosa faccia si fece ancora più paurosa appena capì cosa le stava accadendo.
Era un clown senza forma, violentato, stuprato, con le fiamme negli occhi.
Poi tutto finì, le luci maledette se ne andarono, il tempo cominciò a fluire di nuovo senza intermittenze ed io sentivo il calore del mio sperma colare fuori dal corpo della ragazza.
Le tolsi le mani dal collo e, da quanto forte stavo stringendo, mi procurai un dolore immenso nel far ritornare le dita in posizione naturale, mentre evitavo di guardare il fantasma della mia vittima.
Non mi preoccupai di nascondere le mie tracce, non mi assicurai di non essere visto.
Semplicemente, mi rivestii e cercai di allontanarmi da quella tana di morte il più velocemente possibile.
Feci a piedi la strada per tornare a casa, evitando gli sguardi delle persone.
Ero in una sorta di coma attivo, sentivo che il mondo esterno e la mia persona erano due cose differenti, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Ma ero tranquillo, stranamente tranquillo, come se quello che avevo fatto fosse talmente orribile e grande da aver vergogna nel mostrare a me stesso una qualche forma di sgomento o dispiacere ipocrita.
Avevo superato il limite, varcato la soglia del non ritorno.
“La ragazza è morta” mi dicevo, “ora sono un assassino, nulla cambierà queste cose, non si torna indietro, il tempo non perdona. È come un fiume, scorre in un verso solo. E io sono la belva umana, una bestia nera che perde il controllo, sono un pazzo, uno stregone sotto un suo stesso incantesimo”.
Arrivai a casa e mi sdraiai sul letto.
Quella notte sognai la Via Lattea, sognai di volare per la galassia, fra le stelle.
Mi sentivo felice nel sonno, come da bambino.

La mattina seguente, il risveglio fu l’esatto contrario della notte, mi ricordo la nausea e il vomito, i tremori e l’ansia.
Avevo lasciato troppe tracce, mi avrebbero trovato, avrei finito -giustamente- la mia vita in galera.
Non riuscivo ancora a pensare in maniera completamente lucida a quello che era successo, perché i momenti di follia sono difficili da riportare a galla, anche se erano passate solo poche ore dal terribile evento. Inoltre ero davvero preoccupato per quello che sarebbe potuto succedere a breve; immaginavo la polizia che sarebbe entrata in casa mia sfondando la porta, con fucili mitragliatori puntati e carichi, come nei migliori film d’azione. Pensavo anche che per gli investigatori sarebbe stato un gioco da ragazzi arrivare a me, ricomponendo i tasselli della serata.
La ragazza era in compagnia di un’amica che sicuramente mi aveva visto, poi siamo andati da lei, al dormitorio, dove sicuramente qualche suo compagno di università deve avermi notato. Infine, c’era la prova più schiacciante: il dna. I miei residui erano sparsi per tutto il suo corpo e le mie impronte digitali decoravano ogni superficie della stanza. Ero certo che mi avrebbero arrestato entro qualche ora, quindi non cercai nemmeno di scappare lontano o di andare a nascondermi, sapevo quello sarebbe successo e aspettavo la forze dell’ordine quasi con tranquillità.
Si era già fatta l’ora di pranzo quando feci l’errore di accendere la televisione: due telegiornali in contemporanea parlavano dell’omicidio.
Rividi attraverso lo schermo l’ingresso del dormitorio, la sua cancellata, le scale di marmo. Mi girava la testa come un vortice e nella gola non scendeva più una goccia di saliva.
Quando vidi poi il sacco bianco che doveva contenere il corpo della ragazza, quasi soffocai con il mio stesso vomito.
Ero finito, mi avrebbero catturato ormai in qualche minuto e avrei vissuto il resto della mia vita in una cella buia cercando di non deperire troppo dolorosamente sotto il macigno insostenibile dei sensi di colpa.
Mi riaddormentai, svegliandomi quasi all’ora di cena.
I militari non erano ancora arrivati, nessun segno di FBI o forze speciali.
Richiusi gli occhi e dormii ancora per un’altra notte.
Il mattino seguente mi svegliai che era l’alba, la nausea se n’era andata, il mal di testa era diminuito e mi era tornato un certo appetito.
Preparai un caffè e scaldai del latte, mentre cominciavo a realizzare che forse potevo rimanere impunito. Era probabile che nessuno mi avesse visto, inoltre il dna trovato, per quanto ne potevo sapere io di quelle cose, apparteneva ad un beato sconosciuto.

Passarono i giorni e anche i telegiornali cominciarono a parlare meno dell’efferato omicidio della Bocconi, andando giustamente ad occuparsi di nuove disgrazie e di nuove sanguinose tragedie.
Io tornai alla normalità, cacciando sul fondo della mia oscurità quella storia di follia improvvisa esplosa in una fresca e profumata sera di aprile.
Anche ripensando all’accaduto (non che tutto mi apparisse chiaro, a dire la verità) ormai non mi sentivo più male. Non avevo nemmeno più i sensi di colpa. La pietra era rotolata fino a valle, tutto qui.
Solo, da quella notte, mi rimase uno strano difetto all’occhio sinistro: ogni volta che lo muovevo cercando di guardare in fianco, uno strano lampo arrivava dall’angolo della mia orbita.
Forse ero destinato a portare almeno un segno che mi ricordasse il sacrifico insensato di quella povera ragazza.