Nelle storie, si sa, tutto ha un inizio.
Il seguente scritto, una delle mie memorie, spiega come vengo a conoscenza del Fascicolo.
In quei giorni non davo il giusto peso alle cose.
Se avessi saputo farlo, forse ora non mi troverei in questa sistuazione.
E' di vitale importanza sapere vivere in maniera lucida, riconoscere il giusto peso delle cose.
Dobbiamo cercare di individuare i cardini, per poter sfruttare tutto a nostro favore.
Io non badavo a queste cose, avevo dalla mia un menefreghismo arrogante che mi faceva prendere tutto con una risata.
Pensavo che fosse tutto leggero.
Una sconosciuta, una storia di omicidi.
Non diedi il giusto peso alla cosa.
DALLE MIE MEMORIE, FEBBRAIO 2007
Due settimane e ancora ci penso.
Penso a quella notte surreale e ovattata.
Penso che non ci ho capito niente ma che comunque qualcosa mi è rimasto dentro.
Penso che non so nemmeno il suo nome, cazzo, ma si può?
Penso che potrei essere addirittura innamorato, assurdo.
Quindi, assurdo per assurdo, cerco di estirpare quella notte dalla mia testa convincendomi che sia solo frutto di una visione onirica causata dal gin.
Che merda, il gin.
Comunque, in qualche modo allontano le farfalle dalla pancia.
Faccio così: mi infilo la tracolla, collego tutto quello che devo collegare e posiziono la manopola del gain su “inferno”.
Il suono mi esplode sulla faccia, è un pugno.
Inizio una specie di mantra violento e dilatato, tenendo un tempo tutto mio.
Ecco come cacciare i demoni, li brucio col distorsore, i maledetti.
Continuo a spingere, con delle pennate che scalfiscono il corpo nero della chitarra.
Godo.
Sento le nocche graffiarsi contro le corde, mentre stono di brutto premendo troppo sul manico.
I pensieri volano via, svaniscono.
Sono entrato nel mio limbo dorato, per un attimo riesco a isolarmi da tutto.
Continuo per una decina di minuti, forse più, fino a quando un suono fastidioso ma familiare mi risveglia i pensieri, riportandomi alla realtà.
Sbuffo, è il campanello.
Appoggio la Telecaster sul divano e, mentre sento ripetersi il trillo nervoso, mi dirigo verso la porta.
Giro la maniglia e apro.
Ho il cuore che risale nel petto e si conficca in gola.
È lei.
Quasi non ci credo, mi viene da pensare che sia una specie di scherzo.
Abbasso le palpebre.
Le riapro.
Lei è ancora qui, davanti a me.
In mezzo secondo la analizzo da capo a piedi: è completante bagnata.
Fuori sta piovendo l’ira degli dei, in effetti.
Ha i capelli bagnati appiccicati alla faccia, è bellissima, con gli occhi lucidi come quando la vidi al locale.
La borsa a tracolla possiede il tipico colore del cartone bagnato, mentre tra le fibre dei suoi jeans la capillarità ha permesso all’acqua di risalire fin quasi al ginocchio.
Poi, proprio mentre sto pensando che indossa delle Vans molto carine, la sua voce interrompe la mia fulminea analisi.
“Non sapevo dove andare”, mi dice con voce preoccupata.
Io la faccio entrare e le dico che può asciugarsi in bagno, che ho degli asciugamani, forse anche un phon.
Lei non mi ascolta nemmeno, abbassa lo sguardo e varca la soglia d’ingresso.
Cammina verso il centro della stanza formando ad ogni passo delle pozze grosse come laghi.
Poi si volta verso di me. Il suo viso mi trasmette una profonda angoscia, sembra spaventata.
Io invece, tanto per cambiare, sono confuso.
Mi viene in mente che per due settimane ho pensato a questa sconosciuta incontrata per caso in una gelida notte surreale.
Realizzo che abbiamo anche dormito insieme, io senza sapere il suo nome, lei senza sapere il mio.
A questo punto penso sia lecito - se non giusto - presentarsi, usare le buone maniere, come si farebbe nella vita di tutti i giorni.
Mi presento quindi, cercando di coglierla un po’ di sorpresa: “ah, comunque io sono ***” .
Lei risponde come se avessi detto niente.
Non mi dice come si chiama.
No.
Mi parla di altro, di cose strane.
Dice che devo aiutarla, che potrebbe essere in pericolo perché ha trovato dei racconti che parlano di omicidi realmente commessi.
Poi ritratta, almeno in parte, dicendo che forse è solo uno fra i racconti ad essere il resoconto di un vero delitto.
Io credo quasi a nulla, anzi. Comincio a pensare che la ragazza, quella con gli occhi più belli del mondo, quella della quale non conosco il nome e che sta in piedi davanti a me gocciolando pioggia sul mio pavimento, abbia la mente su di un altro pianeta.
Le chiedo quindi di calmarsi, di riprendere fiato.
Insisto ancora che si asciughi.
Ma lei scuote la testa, mi guarda con quella faccia stupenda e mi dice “ti prego…”.
A quelle parole, dette con quella voce, non resisto.
Mi sento un cretino, ma decido di ascoltare e di fare almeno finta di credere a quello che dice.
Inizia così a raccontare le cose per bene, nel dettaglio.
Per la prima volta sento nominare il “fascicolo”. Non immagino neanche lontanamente quanto tormento porterà quella parola.
In sostanza mi racconta di aver trovato questo fascicolo in casa sua, dove convive con quello che a quanto pare è il suo ragazzo.
Dico a quanto pare perché lei descrive il rapporto con un certo distacco, lo avvolge nella nebbia, non pronuncia mai le parole “fidanzato”, “marito”.
Lo chiama invece “il ragazzo con il quale vivo” o, più semplicemente, Romeo.
Mi dice di essere sconvolta, perché è all’interno di quel fascicolo con la copertina di velluto scuro che ha trovato i fantomatici racconti.
Comincio a comprendere qualcosa.
Romeo è - forse - il suo ragazzo, fa lo scrittore, vive con lei e custodisce un fascicolo con dei racconti.
“Non sembra molto strano, è uno scrittore, dovrebbe essere normale trovare per casa degli scritti” le dico.
Lei risponde, terrorizzata, che in quei racconti si descrive precisamente l’omicidio di una sua conoscente.
Resto comunque incredulo, sulle mie, ma comincio a tremare.
Non mi spiego il perché.
Sento di essere tranquillo, eppure, piano piano, comincio ad inquietarmi.
Non è tanto per i racconti, per la storia macabra che mi racconta o per la paura che sia tutto vero. È piuttosto per la sua espressione. È devastata. Sembra che abbia appena visto un fantasma terrificante.
Poi comincia a raccontarmi la storia della sua amica Anna.
Circa sei mesi fa, durante l’estate del 2006, ci fu una grande festa per celebrare la laurea di alcuni amici.
Da quanto capisco doveva essere una cosa abbastanza in grande, in una discoteca, con almeno 200 invitati.
Nottata a quanto pare delirante, con i festeggiati che vomitano e i festeggianti che fanno di peggio.
Alla fine delle nottata però nessuno ritrova Anna. Il cellulare suona libero ma nessuna traccia di lei.
Gli amici cominciano a chiedersi l’un l’altro dove sia, poi allargano le indagini a persone meno intime, fino a chiedere a chiunque sia ancora nel locale.
Si preoccupano perché Anna non è tipa da sparire senza avvisare. Anche se avesse deciso di tornare a casa da sola, avrebbe avvisato sicuramente.
Tra preoccupazione e ubriachezza, quasi tutti tornano alle loro abitazioni.
Rimane solo il gruppetto di amici più intimi della ragazza.
Arriva l’alba e ancora niente.
Decidono di chiamare la famiglia, per sapere se Anna è a casa.
Nessuna traccia.
Avvertono la polizia, passa qualche ora di “assestamento” e cominciano le indagini.
Insomma, Anna viene ritrovata il giorno dopo.
Il suo cadavere è gonfio ma non ci sono segni di percosse.
Nessuna violenza sessuale.
È morta per strangolamento, senza apparentemente aver lottato.
Non ha lividi o unghie spezzate e a quanto pare è stata usata una cinghia o una fascia in tessuto per bloccare l’afflusso di sangue e aria.
Il corpo di Anna è stato trovato dagli agenti nella stazione dell’acquedotto antistante al locale. Da quanto capisco è una specie di stazione di distribuzione dell’acqua, ci sono pompe e cisterne. Chiaramente è tutto isolato da una rete metallica, ma non c’è nessun servizio notturno che assicuri la non violazione del limite.
L’unica misura di sicurezza è una telecamera, che però è fissa sulle pompe e serve solo per monitorare il corretto funzionamento dell’impianto.
Anche perché è difficile che qualcuno entri furtivamente in una stazione di distribuzione dell’acqua, penso. Cosa si può fare in un luogo del genere?
Forse non sto considerando l’ipotesi di strangolare una ragazza con una fascia in tessuto.
Dalle analisi non risulta che Anna fosse drogata, aveva bevuto, sì, ma era cosciente.
Probabilmente l’assassino ha attirato la vittima in quel luogo appartato e poi l’ha strangolata, forse per un rifiuto di fronte ad avances sessuali.
In ogni caso, le indagini sono ancora aperte e nessun potenziale indiziato è stato individuato.
Sconforto e dolore da parte degli amici, rabbia e sconcerto da parte dei familiari che non riescono a comprendere chi possa avere compiuto un così orribile gesto, senza un movente concreto, senza una spiegazione logica.
Il racconto termina con un lungo silenzio.
Io sono più che imbarazzato anche perché lei sembra ancora più sconvolta di prima.
Gli occhi sono gonfi dal pianto e la voce è tremante, strozzata.
“Cosa c’entra tutto questo con il fascicolo che hai trovato?”, chiedo alla mia misteriosa ospite.
Lei si fa ancora più oscura in volto e mi spiega che nel fascicolo ha trovato tre o quattro scritti, dei racconti brevi che parlano in prima persona delle esperienze di un assassino.
All’inizio questi racconti non la impressionano, perché pensano siano appunti sparsi del suo amico-fidanzato.
Poi arriva all’ultimo foglio.
Il racconto parla dell’omicidio di Anna in maniera dettagliata.
Non lascia spazio all’immaginazione, l’autore, Romeo, dice di essere l’assassino.
Descrive con precisione tutte le fasi della serata, dalla festa fino allo strangolamento della ragazza.
“E’ tutto così reale” mi dice, “Ci sono anche io in quel racconto, ci siamo tutti noi che eravamo a quella festa…mi sembra di riconoscere anche i discorsi, le frasi, le cose che ci siamo detti”.
Poi esplode in un pianto, io mi avvicino e l’abbraccio.
Cerco di tranquillizzarla e, non senza fatica, ci riesco.
Poi le spiego che io lavoro per un editore e che ho spesso a che fare con scrittori (o presunti tali).
Spesso utilizzano storie reali, che li riguardano da vicino, per trasformare il tutto in racconti, romanzi o poesie.
Provo a spiegarle che la cosa più intelligente è parlarne con lui, con Romeo.
Lei mi interrompe e mi dice che ci ha già parlato, per questo è scappata e mi ha raggiunto a casa.
Lui l’ha vista, entrando in casa, leggere i racconti del fascicolo.
Lei mi racconta di come abbia provato a chiedere spiegazioni, sui quegli scritti, su Anna.
È andato su tutte le furie, le ha strappato di mano i fogli e le ha chiesto di uscire di casa.
A questo punto una domanda mi sembra ovvia: “perché non vai alla polizia?”.
Lei risponde che non è sicura, che forse sta esagerando, in fondo è davvero uno scrittore, potrebbero essere solo idee, appunti, e poi “come faccio ad andare dalla polizia per dei racconti trovati ad uno che di mestiere fa lo scrittore?”, mi dice.
Forse sto cominciando a farla ragionare, forse è ancora sconvolta dalla morte dell’amica e trovare quel racconto può aver alterato un po’ la sua percezione delle cose.
Le chiedo cosa ha intenzione di fare.
Risponde che vuole tornare a casa, per prendere il fascicolo, per rubarlo, portarlo via.
Così avrebbe modo di leggerlo con calma e magari di andare alla polizia con una prova reale.
Mi chiede di accompagnarla.
Io, non sapendo di fare il primo passo verso l’oblio, acconsento.
Per la sua sicurezza, non posso lasciarla andare da sola.
E poi, io sono il suo “cavaliere”, quello che l’ha strappata da quel casino di notte, un paio di settimane fa. Non posso rifiutarmi.
Anche perché lei ha una specie di magnete che, magico e misterioso, mi attira facendomi perdere i riferimenti con ciò che è reale e ciò che non lo è.
Il viaggio in macchina verso casa di Romeo è un inferno fra le vie della città, sotto la pioggia e nell’ora di punta.
Però, al contrario della prima sera, questa volta parliamo.
Le racconto del mio lavoro, che sono una sorta di aiutante tuttofare di un editore e che spesso mi occupo della selezione artistica.
È una coincidenza divertente questa.
La storia gira attorno ad uno scrittore, potrei anche conoscerlo e averlo incontrato.
È anche molto probabile, dato che quello che gira in città al 99% passa dalle nostre scrivanie (in realtà dalla mia, solo pochi arrivano a quella del grande capo).
Magari ho già letto i suoi racconti, le sue storie.
Magari le ho cestinate e sono passate nel dimenticatoio, chissà.
Strano però che non ricordi questo Romeo. Di solito tendo a ricordarmi tutti i nomi degli scrittori, è utile.
Poi mi dice che qui in città ancora non ha contatti con editori e che l’unica cosa che ha terminato è un romanzo dal titolo “Nemesi”, scritto sotto pseudonimo, e che sta per essere pubblicato da un editore fiorentino.
Al momento non indago oltre, non chiedo quale fosse lo pseudonimo usato. Non approfondisco nemmeno sull’editore fiorentino (sarà la Nasso edizioni, mi dico).
Le chiedo invece della sera nella quale ci siamo incontrati e lei me ne parla in maniera tranquilla anche se un po’ approssimata.
Scopro, al momento senza grande sorpresa, che il ragazzo che avevo colpito sul naso era Romeo.
Non mi ricordo nulla del suo volto, mi viene in mente solo che indossava un cappotto scuro, forse grigio.
Sprovveduto e stupido, ci rido anche sopra.
Penso che sia buffo andare a rubare i racconti di questo scrittore al quale una notte ho portato via la ragazza ringraziandolo con un pugno sul muso.
Non immagino nemmeno alla lontana quello che sta per succedere, il mondo di follia in cui sto per entrare.
Avrei dovuto rifiutarmi di accompagnarla, buttarla fuori di casa, questa pazza.
Anzi, non avrei proprio dovuto conoscerla quella maledetta sera.
Sono un testa di cazzo, perché non me ne sto al mio posto?
Perché sono tornato al locale, dopo che ce ne eravamo già andati?
Avrei potuto schivare tutta questa faccenda.
Ma non l’ho fatto.
Arriviamo davanti ad un vecchio palazzo, siamo esattamente tra Romolo e Porta Genova.
Lascio la macchina in doppia fila con le frecce accese e scendiamo.
Lei ha le chiavi di casa.
Entriamo nel portone e superiamo l’atrio che divide due ampie scale.
Passiamo dal cortile interno e ci dirigiamo verso il lato destro.
Guardo in alto, è una vecchia casa di ringhiera, un po’ malconcia ma tutto sommato carina.
Lei si ferma davanti ad una rampa che porta in uno scantinato.
Infila la chiave nel lucchetto che chiude un portone con la vernice scura e mi fa cenno con la testa.
Entriamo piano, con il timore di poter trovare lo scrittore, forse assassino, che ho picchiato due settimane fa.
Non c’è nessuno.
La ragazza accende la luce: davanti ai miei occhi vedo una stanza molto grande, con delle colonne scrostate nel mezzo. Un tempo era sicuramente una fabbrica, magari una di quelle piene di tavoli e banchetti, con donne più o meno concentrate nel cucire a macchina grandi porzioni di tessuti.
Quello che vedo è infatti il risultato dell’adattamento di quella vecchia officina.
Un grande monolocale, con il letto al centro e tanti libri sui grossi scaffali di legno grezzo.
L’ambiente è umido e sicuramente clandestino, ma mi piace, è bello, trasmette una bella sensazione.
Potrei viverci benissimo in un posto così, anche perché casa mia non è molto differente.
Appena ci avviciniamo allo scaffale più grande, la mia compagna di avventura inizia a cercare fra i libri disordinati.
Non trova nulla, nessuna traccia del fascicolo.
Mi chiede di aiutarla a cercare questo portadocumenti di velluto scuro e io provo ad accontentarla anche se passo la maggior parte del tempo a spulciare i libri che trovo buttati sulle assi degli scaffali.
Bergson, Bukowski, Céline, Cervantes, Defoe.
Ottimo, penso. Ci sono tutti i classici, anche quelli più trascurati dal mondo accademico.
Comincio a pensare che possa essere un bravo scrittore questo Romeo.
Comunque, la mia ricerca dura poco.
Lei è convinta che il fascicolo non ci sia più, e mi dice che probabilmente l’ha portato via lui, l’ha nascosto o fatto sparire, per non lasciare tracce e prove.
Decidiamo di andarcene, dopo aver controllato nella stanza per circa una quindicina di minuti.
Lei prende degli abiti da un armadio, poi della biancheria.
Infila tutto in una borsa non molto grande, poi prende dei soldi da un cassetto e dei documenti da un altro.
Spegne la luce e siamo fuori.
Torniamo a casa mia, questa volta ci impieghiamo meno tempo, il traffico sta già scemando e non piove più.
Siamo piuttosto incerti sul da farsi.
Io le dico che può restare da me quanto vuole, che non c’è nessun problema.
Lei mi assicura che sarà solo per una notte, perché ha intenzione di andarsene domani dalla città.
Dice che raggiungerà un’amica a Lisbona: “me ne voglio andare, devo cambiare aria, non voglio più sapere niente di questa storia.”
Io sento vibrare la coscia sinistra, a metà strada tra l’anca e i testicoli.
È il telefono cellulare.
Rispondo.
Dall’altra parte del telefono c’è il grande capo, che con il suo vocione da cantante lirico mi avvisa di passare a prendere le prime copie di “Primavera sterile”, l’ultimo libro edito dalla nostra -anzi, dalla sua- amatissima fucina di incredibili talenti letterari.
“Ok, grande capo”, rispondo.
Avviso quindi la ragazza che devo assolutamente uscire ma le dico che lei può rimanere in casa, farsi una doccia, asciugarsi e mettersi comoda.
Forse c’è anche della birra da qualche parte.
Lei annuisce e sorride, sembra più rilassata.
Accetta di rimanere a casa mia, anche perché ha ancora indosso quei vestiti umidissimi e penso che una doccia calda a questo punto sia una scelta obbligata.
L’atmosfera tesa della giornata sta per lasciare spazio ad una strana tranquillità, una specie di sensazione pacifica e piacevole che stona non poco con la storia inquietante in cui ci troviamo, o meglio, in cui (per adesso) si trova lei.
Una felicità stupida mi risale dallo stomaco nel vederla un po’ più rilassata e nel notare che il suo volto ha anche altre espressioni oltre all’angoscia.
Quanto è bella, penso, poi mi volto e giro la maniglia.
“Ci metterò una mezz’oretta, magari passo a prendere qualcosa da mangiare. Ti va del sushi?”
“il sushi va benissimo, grazie.”
“Perfetto allora. A dopo”.
Sto per chiudere la porta quando sento ancora la sua voce:
“Cristina. Mi chiamo Cristina”.
Io le sorrido ed esco di casa.
In venti minuti ho già ritirato lo scatolone con le prime copie di “Primavera sterile” e sono diretto al supermercato.
Una volta all’interno del grande magazzino alimentare mi dirigo rapido verso il banco frigo, prendo due barchette di sushi, poi passo a prendere qualche birra, una bottiglia di Coca-cola e via verso l’ultima cassa rimasta aperta.
Una calda e soave voce femminile mi avvisa dagli altoparlanti che il supermarket sta chiudendo.
Pago, imbusto e torno al parcheggio.
Dieci minuti ancora e sono a casa.
Il sentimento di stupida felicità che deriva dall’avere Cristina a casa mia supera quello di paura e inquietudine per la vicenda di Romeo.
Potrebbe essere la ex ragazza di Hannibal Lecter, che mi fregherebbe nulla ugualmente.
Apro il portone e con un sorriso da ebete saluto la signora del terzo piano che porta fuori il cane.
Salgo le scale tre per volta, rischiando di cadere e di compromettere così la nostra cena.
Arrivo alla porta, la apro velocemente ed entro in casa.
“Eccomi…tutto bene?” dico io per avvisare Cristina della mia presenza.
Non sento risposta.
Attraverso la stanza e scendo in cucina.
Niente.
Risalgo e provo al bagno.
Sul pavimento e sullo specchio i segni della doccia.
Noto anche un asciugamano ripiegato un po’ di fretta.
Solo, non trovo Cristina.
Non ci sono i suoi vestiti, non c’è la sua borsa.
Se n’è andata di nuovo.
E questa volta non mi ha lasciato biglietti.
“Ma porca troia”, dico ad alta voce con tono rassegnato, “questa è pazza”.
Passo la serata ad ingozzarmi con i maki imbevuti di salsa di soia, mentre un paio di litri di birra aiutano ad ingoiare tutto quel pesce crudo.
Mi sento un cretino.
Poi sorrido e dico fra me e me: “almeno ora conosco il tuo nome, Cristina”.
martedì 10 marzo 2009
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