mercoledì 30 settembre 2009

Ancora una lunga pausa, ancora un altro periodo di calma dovuto ai miei disturbi.
Cerco di dormire e di far calmare il mal di testa, ma non sempre ci riesco.
Comunque, voglio scusarmi per il mio assenteismo, ma ora che ho un pc anche qui in clinica spero di poter fare di meglio.
Voi non abbandonatemi.

"Non c'è via di fuga per chi vive in fuga", lo dice anche Palahniuk.

Questo è il terzo capitolo delle cronache della follia di Romeo:


LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #3



Era trascorso poco più di un mese dall’ultima esplosione del mio Passeggero, tuttavia sentivo di aver acquisito una nuova lucidità, una ferma e sorprendente prospettiva.
L’angolo con il quale si guardano le cose è basilare, anche se a volte tendiamo a dimenticarne il profondo significato.
Ci scontriamo con le superfici altrui ignorando che le persone sono mezzi diversi fra loro.
Per questo è molto utile conoscere l’angolo con il quale la nostra radiazione arriva al fluido degli altri.
Una porzione di noi sarà sempre respinta, con angolo identico a quello di arrivo anche se opposto rispetto alla bisettrice della somma dei due, mentre ad una parte della nostra banda sarà possibile penetrare in un mezzo altrui.
Se conosciamo a sufficienza il nostro mezzo e quello con il quale ci imbattiamo, possiamo predire la direzione del nostro fluido.
Dobbiamo però conoscere l’angolo di arrivo per poter determinare la deviazione della nostra banda una volta superata la soluzione di continuità.
Eccolo, il trucco.
Dobbiamo stare attenti all’ottica delle cose, alle rifrazioni, agli angoli.
Possiamo provare a collidere mille volte con una superficie altrui, ma se arriviamo con l’angolo sbagliato tutta la nostra banda non raggiungerà il punto giusto. E a quel punto si sarà trattato solo di un spreco di forze, un tentativo inutile.
Se invece si possiede l’accortezza di capire, e quindi di decidere l’angolo d’incidenza, allora si può penetrare e colpire il cuore.

Negli ultimi tempi avevo avuto modo di affinare la mia tecnica e cominciavo a fare esercizio per sfruttare al meglio questa capacità.
Riuscivo a gestire bene le cose perché riconoscevo i differenti approcci da avere in funzione delle situazioni che mi si presentavano davanti.
Nei casi più fortunati riuscivo addirittura ad esercitare un sorta di potere, di malia, in modo da entrare nei mezzi altrui e colpire il cuore delle cose.
Se la situazione richiedeva che fossi comprensivo e dolce, d’un tratto mi trasformavo in un ragazzo ben educato, altruista e disposto ad aiutare gli altri, tutto moine ed empatia.
Se, al contrario, occorreva che fossi rude e dominante, ecco di colpo la mia trasformazione in un cattivo ragazzo di strada.
Come un nuovo Leonard Zelig. O come albero da riva, se preferite, che si piega per non rompersi mai.

La sera della festa ottenni i risultati di due applicazioni della mia tecnica. Opposti e sorprendenti, da alcuni punti di vista.
In quei giorni avevo iniziato a testare le mie capacità usando i miei metodi su due ragazze molto diverse fra loro, entrambe interessanti e in qualche modo uniche.
Cristina era all’apparenza una ragazza molto schiva e riservata, di quelle che servono anni di conoscenza per averle dalla propria parte.
Bellissima, i capelli castano scuro non troppo lunghi e gli occhi magici come possono esserlo solo quelli delle ragazze tristi.
Faceva effetto nel vederla e, di acchito, poteva tranquillamente sembrare il prototipo della ragazza difficile, dell’introversa, della figa di legno.
E in effetti doveva proprio esserlo, con gli altri.
Io li vedevo tutti quei ragazzi che le giravano intorno, storditi dal suo profumo, come dei cagnolini girano attorno al padrone che porta loro il cibo.
Con me invece era completamente diversa, un’altra persona.
Perdeva quell’aria di essere superiore e celeste e diventava di carne e sangue come tutti gli altri umanoidi.
Io riuscivo a penetrare nel suo mezzo, stordendola e in qualche modo mettendola in una posizione di evidente sottomissione.
Suscitavo l’invidia di tutti i conoscenti.
Cristina la dea, la Iside, la donna dei sogni.
Io l’avevo ai miei piedi e non dovevo nemmeno sforzarmi troppo per mantenere questa relazione in omeostasi.
Il trucco stava nell’aver azzeccato l’angolo con il quale si doveva collidere con la sua anima, con il suo io di ragazza eternamente triste per via di vecchie e profonde ferite.
Le inarrivabili sembra sempre che abbiano un passato oscuro che le tormenta.
Le facili invece lo hanno per davvero, il passato oscuro e pieno di problemi, solo che loro si sfogano con i rapporti interpersonali. Col sesso, con le droghe. È la loro via di fuga.
Cristina dunque era una bellissima altezzosa problematica e refrattaria ai rapporti, di quelle che con i loro occhi di velluto rubano le anime degli uomini sprovveduti.
Direi che rientrava bene nel tipo uno.
In tal caso serviva quindi avvicinarsi piano, far finta di non notarla e anzi, se si poteva, trattarla un po’ male, come se lei fosse una delle tante.
Senza darle mai l’impressione di essere interessato, giravo intorno ai problemi di Cristina come un avvoltoio gira intorno ad una carcassa marcia. Cominciai a cibarmi di lei appena per errore si espose al mio attacco. Che io sferrai, ovviamente, usando un angolo misurato con la dovuta perizia.
Era una ragazza estremamente intelligente, eppure si accorse di nulla, non ebbe nemmeno il sentore, non il più lontano presentimento del fatto che io stessi applicando un metodo scientifico e rigoroso per farla mia.
La conoscevo da due settimane quando m’invitò alla festa di laurea di alcuni suoi amici, due nuovi dottori ben vestiti e sorridenti, pronti a sfondare qualsiasi porta senza girarsi mai per vedere la propria ombra che li insegue. Beati loro, così leggeri e determinati da non vedere la miseria, da non accorgersi del nulla assoluto.
Alla festa incontrammo anche Anna, pronta a festeggiare con noi -non che a me fregasse un cazzo- il titolo conseguito dai novelli dottorini junior (è così che si chiamano ora?).
Lei l’avevo conosciuta la sera in cui vidi per la prima volta Cristina, in occasione di una cena a casa di amici comuni.
Fu esattamente quella sera che decisi di provare i miei “angoli” sulle due.
Se però con Cristina le cose erano facili e dalla curiosità di provare la mia capacità di impormi era nata anche una specie di relazione, con Anna non avevo avuto il medesimo successo.
Mi dava dei grossi problemi, del filo da torcere, come si suol dire.
Mi vedeva dentro, cazzo, ero traslucido per lei, come se tutti i miei modi di fare e le mie tecniche fossero inutili.
La cosa buffa, oltretutto, è che Anna non era un tipo difficile come lo era Cristina, piuttosto posso dire che sembrava una di quelle ragazze carine e disponibili, che danno confidenza a chiunque le conosca, senza distinzioni particolari. Anna era insomma il classico tipo facile da conquistare, magari di quelle con veri problemi nel loro passato ma che hanno molta più forza di quanto si crede, per cui i miei tentativi di scardinare il suo mondo non funzionavano affatto.
Avevo provato ad accedere alla sua anima con tutti gli angoli che conoscevo, avevo usato tutte le prospettive, tutte.
Niente da fare, per me era una muraglia impossibile da penetrare, una fortezza.
È un paradosso, ma per gli altri era probabilmente facile da conquistare, al contrario di Cristina, eppure io non riuscivo a trovare il modo.
Non che volessi conquistarla per averla o per portarla a letto, dato che avevo già Cristina (la quale mi piaceva molto di più), solo che ero curioso di sperimentare nuovamente i miei metodi.
Certo, c’era anche una buona dose di ego e di desiderio di potere dietro tutto, lo sapevo, ma era in gran parte curiosità.
Per farla breve, alla festa tutti mi guardavano con occhi invidiosi perché ero il nuovo compagno della stupenda e irraggiungibile Cristina, eppure io non riuscivo a fare presa sulla più modesta e accessibile Anna.
Un mistero, per me.
Mi sarei aspettato di faticare moltissimo con la prima, invece mi ritrovavo nella situazione opposta a quella dettata dalle apparenze.
La teoria e la pratica non sempre coincidono.

Arrivammo al locale abbastanza presto, camminando per la strada che passa sotto la torre e che porta al locale, esattamente dietro la Triennale.
Avevamo sui visi l’espressione di entusiasmo misto ad imbarazzo tipica delle nuove coppie che si trovano a partecipare ad eventi che li espongono verso tutti gli altri conoscenti.
Da una parte ci si sente eccitati di mostrare il partner ai propri amici, dall’altra si percepisce di essere come sotto osservazione, al centro dell’attenzione e dei pettegolezzi, per cui anche i gesti più normali diventano come un po’ meccanici ed impacciati.
Io mi fingevo felice di conoscere quella mandria di zucche vuote che erano alla festa e dentro di me pensavo solo ad andare verso il bancone.
Certo ero felice di stare con Cristina, probabilmente non avrei dovuto voler nulla di meglio dalla vita, ne ero al corrente ma, come al solito, dentro di me si faceva già vivo il sentimento nero di oppressione che mi condannava a vivere come un emarginato da ormai qualche tempo.
Era un serpente concettuale che si annidava nelle mie viscere e che con le sue spire mi soffocava dall’interno. Rendeva tutti i miei tentativi vani.
La ragazza perfetta, la scrittura che cominciava a fluire, averla fatta franca con i due omicidi.
Dovevo essere al settimo cielo, invece mi sentivo soffocare.
Stavo di nuovo sentendo esplodere il mio Passeggero, ed io mi accorgevo che lasciarlo libero era l’unico modo per poter continuare a sopportare me stesso ed il mondo intero.
Gli uomini non si sopportano, l’umanità intera non si sopporta, ve lo dico io. Per questo ci ammazziamo, ci spariamo, lanciamo missili o ci imbottiamo di esplosivo per farci saltare in posti affollati.
È per lo stesso motivo che chi ci ha concepito ha pensato di obbligarci al sonno.
Dobbiamo dormire, perché non ce la faremmo a sopportarci per 24 ore di fila. Ci odieremmo, arriveremmo ad ucciderci.
Dobbiamo dormire per un terzo della nostra esistenza in modo da poter convivere col fottuto noi stesso.
Io questo lo sapevo e non potevo di certo reprimere tutta questa schifezza spingendola di nuovo in qualche parte remota della mia mente, quindi, una volta arrivato al locale, cominciai a pensare come cercare di spegnere le scintille di oblio che mi affollavano i pensieri.
Ovviamente, appena riuscii a liberarmi dei convenevoli legati alle nuove e non interessanti conoscenze, mi fiondai al bancone.
L’alcool mi teneva buono, affievoliva in me il desiderio di apocalisse nucleare che provavo in certi momenti.
Lasciai dunque Cristina ad un gruppo di quattro o cinque spasimanti dalle cappelle sempre bagnate e mi sedetti sullo sgabello del bancone, a quell’ora per fortuna non ancora affollato.
Li udivo provarci con la mia donna, ma non m’importava. Avevo io le chiavi di casa, i ragazzini sarebbero rimasti fuori, questa sera come le altre.
Mentre sorridevo nel sentire i loro ridicoli modi di bullarsi per mettersi in competizione l’un l’altro e dimostrarsi i galli più cazzuti del pollaio, decisi di ordinare da bere.
Una vodka doppia era quello che ci voleva, per sistemare almeno temporaneamente il mio demone.
Assaporando con la punta della lingua il liquido all’interno del bicchiere potevo accorgermi del cambiamento organolettico che ha luogo appena il distillato viene a contatto con le papille gustative; il freddo dovuto alla bassa temperatura della bevanda stava lasciando posto ai 37 gradi della mia carne e in questo passaggio sembrava quasi di cogliere la fase acquosa in separazione dall’alcool che, evaporando, lasciava sulla superficie esterna della mia bocca una sensazione di fresco secco.
Mentre mi godevo quell’attimo e provavo stupore per come ogni volta in quel preciso istante si faceva vivo il sapore del grano sul mio palato, qualcosa distolse i miei pensieri bruscamente.
Era la voce vivida e gioiosa di Anna, che mi salutava con un “eeehhhiiiiiii” lungo un’eternità.
Si mise a sedere in fianco a me e ordinò un daiquiri.
Il suo sguardo era come un’arma carica puntata al cuore, non avevo modo di sottrarmi a quella minaccia e mi sentivo terribilmente in difficoltà, in ridicola difficoltà.
Cominciammo a parlare di argomenti perlopiù futili, ed io non riuscivo a concentrarmi granché sulla conversazione, dal momento che non ero in grado di tenere sotto controllo i suoi occhi indagatori.
Ma non erano solo gli occhi, no, era tutta Anna che si sottraeva alle mie tecniche e rispondeva agli attacchi con nuovi e più potenti metodi di sottomissione. Faceva quel giochetto con la bocca, ovvero schiudeva leggermente le labbra, spostando con grazia la mandibola verso l’arcata fissa della mascella, come se stesse stringendo i denti senza però farli toccare tra loro. Come la smorfia che si fa quando si sente un leggero dolore, sia una puntura d’insetto o una piccola bruciatura.
Lo faceva anche quando rideva, lasciando in questo caso più scoperti tutti i suoi perfetti denti bianchi che risaltavano alla luce scintillando di saliva.
Questi piccoli movimenti dei muscoli del suo viso erano per me al tempo stesso deliziosi e orribilmente fastidiosi, dal momento che non solo mi distraevano dall’applicazione meticolosa delle mie tecniche, ma riuscivano anche a catturarmi e a farmi entrare nel suo mondo, nel suo gioco.
Finivo cioè col farle delle domande, con l’interessarmi a lei e magari addirittura con l’espormi pericolosamente in prima persona.
Era come le lei sapesse già tutto di me, in che modo non saprei dirlo, forse tramite divinazione che seguiva ai rituali meticolosi del controllo dell’altro tramite mimica facciale e uso dell’apparato boccale.
In ogni caso era pericolosa per me, perché sarei potuto arrivare al punto di raccontarle tutto, i miei disturbi, i miei piaceri, il mio Passeggero.
Per fortuna, le feste sono ricche di personaggi molesti che saltano fuori all’improvviso pronti per troncare i dialoghi -quasi- seri che prendono vita davanti ai banconi dei bar.
Grazie a qualche amico di Anna, infatti, riuscii ad evitare di sondare il mio io ancora più e a trattenermi dal per vomitarlo poi davanti alla mia interlocutrice.
Qualche istante frenetico di abbracci e baci, battute volgari e scontate, sorrisi e strette di mano; questo bastò per rompere l’incantesimo e per salvarmi dall’errore.
Poi piombarono su di noi i festeggiati, lui in completo e lei con un vestito da almeno 1000 euro, ci fu baldoria, io mi ricongiunsi alla dolce Cristina e allontanai da me i pensieri malvagi provando ad essere, non dico una persona normale, ma almeno non un disadattato pazzo omicida.
La serata insomma stava scivolando via tra sigarette, drink e pisciate.
Verso le 2 però, nel pieno della notte e dei festeggiamenti, Cristina si allontanò per parlare con degli amici e io fui di nuovo intrappolato da Anna.
Arrivati al “secondo me non pensi tutte le cose che dici”, le chiesi se potevamo uscire un attimo da quella bolgia e andare a fumare una sigaretta in un luogo dove avrei potuto evitare di dover leggere le labbra per capire le sue parole (e in questo caso leggere le labbra era pericoloso, essendo la bocca la sua arma migliore).

Nello spazio che ci separava dal luogo dove la stavo portando a sua insaputa, c’erano almeno 200 persone, due file di macchine, un semaforo e un camioncino fermo sul marciapiede a lavorare come chiosco panini e bibite.
Dovevo concentrarmi nel procedere in maniera da non attirare l’attenzione della gente; ormai ero diventato più accorto nel preambolo e nei preparativi, si sa mai che qualche piccolo dettaglio possa rivelarsi in futuro un grosso errore.
Camminavo quindi con la testa bassa, cercando di tenermi in mezzo alla gente in modo da confondere la mia sagoma e quella della mia vittima con le altre che seguivano la piccola via oppure che si apprestavano ad attraversare al semaforo.
Una volta giunti dall’altro lato della strada, cominciammo a passeggiare con più calma, parlando di tutte le cose delle quali non si dovrebbe parlare mai, dalla propria infanzia fino ai demoni più recenti.
Io ero ormai completamente trasparente e le avrei anche confessato che mi stavo portando dentro un brutale assassino, non fosse che l’avrei spaventata e non avrebbe quindi mai accettato di venire a vedere la centrale di distribuzione dell’acqua che si trovava proprio in fronte al locale.
Sembrava anche divertita quando cambiando discorso le spiegai a cosa servivano quelle cisterne e perché era necessario avere dei filtri a carboni.
Comunque, per me era sufficiente distrarla e passeggiare attorno alla struttura fino a raggiungere la zona posteriore che era completamente nascosta e all’ombra di qualsiasi luce artificiale, ma fu lei ad avere l’idea più brillante: “scavalchiamo”.
E così fummo dentro, nel buio, senza che occhio potesse vederci (l’unico occhio del quale mi preoccupavo era quello della telecamera che, per mia fortuna, era orientato verso una sola zona della stazione).
Anna camminava divertita davanti a me, mentre io cercavo di capire come fosse possibile che i miei comportamenti non l’avessero insospettita.
Quando arrivammo nella zona più buia, quella che ospita le cisterne con i filtri, sentii il tremore, quello che ormai mi ero abituato a riconoscere.
Mani che pulsano e sudano, vene sulle tempie che battono, aritmia, la gola che si gonfia e non vuole far passare l’aria.
La figura nera di Anna mi precedeva nel buio lasciando una scia di profumo ed io ero pronto per cedere il controllo al mio Passeggero.
L’arma che nell’impeto decisi di usare era la cintura che indossavo, una lingua di nylon spessa e resistente.
Sentivo gli occhi schizzarmi fuori dalle cavità, tanto il cuore pompava con violenza il sangue, ma le mie mani erano ferme e decise.
Tolsi la cintura e rapidamente la avvolsi attorno alle mani, rivoltandola un paio di volte, come si fa con una corda quando la si deve tirare con maggior efficacia.
Senza quasi rendermene conto, mi avvicinai con rapidità alla mia vittima facendo passare velocemente la fettuccia oltre la chioma corvina che le copriva la testa e, non appena ebbi superato il viso, tirai verso di me la cintura con tutta la violenza che avevo dentro.
A quel punto incrociai le braccia, per moltiplicare l’effetto della mia forza.
Il risultato fu spaventoso, terrificante.
Il suo collo fece un rumore fortissimo, come una pietra pesante che viene lasciata cadere dal tetto di un palazzo o addirittura come due grosse automobili che collidono in un incidente stradale.
Mi spaventai nel sentire quel rumore, tanto che allentai di colpo la morsa e lasciai cadere il corpo senza turgore di Anna.
L’avevo uccisa con un solo colpo, un gioco da ragazzi.
Prendere una vita ad una ragazza ignara delle intenzioni del proprio assassino è questione di attimi, se poi si possiedono forza fisica e tempismo, diventa davvero banale.
Così tanta fatica per nascere, restare in vita, combattere con questa merda di entropia e poi arriva un quasi sconosciuto e ti uccide con una cintura.
Davvero mi chiedo, nel caso dovessi avere mai dei figli, se avrò il coraggio di buttare altre anime sul fuoco di questo mondo.
Probabilmente no, non potrei mai fare un torto così grosso al sangue del mio sangue.

Nessuno si accorse della mia assenza (è questo il bello delle feste), solo Cristina mi si avvicinò per chiedere dove fossi andato a finire.
Risposi “a pisciare”, facilissimo metterci più del previsto, visto il delirio di quei cessi che, dato che non erano abbastanza frequentati, qualche stilista di architetture interne aveva deciso di fare per tre quarti promiscui.
Comunque, passai ancora un’altra ora a bere vodka e a fumare sigarette nell’attesa che il casino scoppiasse.
Ero seduto a parlare con Cristina su di un divano nel mezzo del giardino del locale e, nonostante il caldo terribile, riuscivo a non sudare e a provare una sensazione fantastica, di liberazione, quasi di gioia.
Mi sentivo fresco e rilassato, come dopo un orgasmo.
Poi, il casino scoppiò.
Nessuno riusciva a trovare Anna, il suo cellulare suonava ma le chiamate non avevano risposta.
Io solo ero al corrente, io solo sapevo che il suo telefono era a duecento metri da noi; vibrava, s’illuminava e suonava nel buio, come un disperso che chiama aiuto dal fondo di una valle sconfinata e solitaria.
Passarono i minuti e poi i minuti divennero mezz’ore, la gente cominciava ad abbandonare la discoteca e il giardino di conseguenza si svuotava delle orde festanti che lo occupavano.
Gli unici a non lasciare il locale erano gli amici intimi di Anna, quelli con i quali era venuta alla festa, quelli con i quali se ne sarebbe dovuta andare.
Anche Cristina era preoccupata, continuava a ripetere che Anna non era la tipa da abbandonare il posto senza avvisare i suoi amici.
Negli occhi della mia compagna potevo leggere con chiarezza il presagio che si faceva via via sempre più reale e concreto.
Fu una cosa molto triste.
È sempre brutto vedere qualcuno che soffre pensando ad una persona che in un modo o nell’altro scompare.
Quanto a me, io sono una bestia, un egoista del cazzo, un assassino, uno stupratore, uno strangolatore.
Io non ho un cuore, non ho sentimenti, ho solo merda e viscere tiepide.

Lasciammo anche noi la discoteca quando era ormai mattina, per dirigerci verso casa di Cristina, la quale era sempre più inquietata per sparizione della sua amica.
Arrivati a casa ci spogliammo in maniera confusa, seminando indumenti per le stanze e arrivando quasi carponi al letto. Ci sdraiammo e aspettammo abbracciati il sonno.
Cristina era bella da togliere il fiato e il mio cuore bastardo correva fortissimo per ricordarmi che le mie interiora avevano il dominio sulla mia persona esterna.
Cercai di non pensarci e chiusi gli occhi.
Nel sonno, sognai di essere al centro di un antico anfiteatro romano, durante una notte ventosa ma tiepida. Mi sentivo terribilmente impaurito e giravo vorticosamente alla ricerca di qualcosa, mentre nel cielo una tonda luna di ghiaccio rubava la luce al sole per proiettarla tetramente su tutta la costruzione.
D’improvviso, una visione mi gelò il sangue nelle vene: sotto una volta dell’anfiteatro, in penombra, una figura umana con una tunica nera dal grosso cappuccio agitava qualcosa tenendo le braccia all’altezza del viso. La vista di quella persona mi pietrificò, provocando in me una sensazione di orrore che mai nella vita avevo provato. Fu come guardare la morte.
Lentamente questa persona si spostò dalla lingua d’ombra che la pietra dell’arcata lanciava sul suolo e finalmente riuscii a vedere cosa teneva fra le mani.
Era un neonato.
Un piccolissimo bambino avvolto in una coperta marrone scuro.
Il bambino non emetteva gemiti e la losca figura non mi parlava; gli unici suoni che riuscivo a percepire erano quello del vento e quello che, più in sottofondo, sembrava ricordare il motore di una grossa nave o, più semplicemente, quello di una centrale di distribuzione dell’acqua.
Poi la figura spaventosa con la tunica nera alzò di scatto il bambino sollevando un braccio, tenendolo per una caviglia e lasciandolo penzolare a testa in giù.
Il piccolo cominciò a strillare in maniera assordante ed io percepii il suo timore, la sua sensazione ancestrale dell’essere in pericolo.
Avrei voluto intervenire, fare qualcosa, strapparlo dalle mani di quella “cosa”, ma non riuscivo a muovermi dalla paura.
Non si muoveva nemmeno un muscolo, come in una paralisi ipnagogica.
D’un tratto la sagoma scura aprì la mano lasciando precipitare il bambino verso il suolo.
Io urlai fortissimo, svegliandomi completamente sudato al fianco di Cristina, la quale con una mano sul mio petto cercava di tranquillizzarmi.
Poi mi riaddormentai, in posizione fetale, schiacciandomi contro il corpo caldo della donna che stava al mio fianco.

Al risveglio avvertii la solita sensazione di nausea e, dopo aver vomitato svariate volte, mi resi conto di un particolare: quel suono sordo e continuo non cessava di rimbombare nelle mie orecchie.
Col passare delle ore si affievolì, ma da quel giorno i disturbi uditivi mi avrebbero perseguitato, causandomi forti mal di testa.
Cominciavo quindi a capire.
Io mi liberavo dell’insofferenza alla vita rigurgitando il mio Passeggero, il quale si prendeva qualcosa dal mondo come pegno per la mia stabilità, ma poi, il mondo, con una specie di contrappasso prendeva qualcosa a me.
Alterandomi il campo visivo, scheggiandomi un dente, lasciando la scia di un rumore lontano dentro la mia testa.