E' passato più di un anno, ed io non me ne sono reso conto.
I pensieri viaggiano alla velocità della luce, il tempo si dilata e tenerne conto diventa un'operazione impossibile per una mente sublunare.
Abbiate ancora un poco di pazienza, perchè la storia sta per concludersi.
Sono troppo stanco per scrivere un riassunto, è meglio pubblicare man mano il materiale che ho scritto in questi lunghi mesi.
Di seguito trovate le mie memorie di marzo 2007, le ho divise in parti per evitare di creare un garbuglio di avvenimenti e di storie.
Qualcuno diceva che anche la jella si stanca, a lungo andare.
Io non so se ci credo più.
Buona lettura.
DALLE MIE MEMORIE - MARZO 2007 - parte prima
I premi letterari, si sa, sono una mezza farsa.
Tanto più sono importanti, tanto più sono architettati e manovrati.
A tirare i fili del gioco ci sono gli editori, i quali decidono tutto riguardo partecipanti e vincitori, in perfetta ottica di mercato.
È il marketing, baby.
Sono i soldi, i verdoni, il cash. C’è nulla da fare.
È per questo motivo che stare seduto qui ad assistere alla messinscena del nuovo premio letterario ideato dalla giunta comunale della mia fantastica città è piuttosto snervante.
Il Grande Capo mi ha già detto chi vincerà, togliendomi tutta la suspense del caso e facendomi di conseguenza estraniare da tutta la cerimonia.
Lui, il boss, non è seduto con me, ma appoggia il suo culone pesante sul finto velluto rosso delle poltroncine in prima fila. È pur sempre un editore, d’altronde.
Io invece sono in ventesima fila che cerco di non addormentarmi tra una presentazione e l’altra.
Il “nostro” Primavera Sterile è arrivato ad un soffio dal podio e a noi questo risultato basta e avanza.
Se si considera poi che il romanzo è mediocre, potrei arrivare ad affermare che io e il Grande Capo stavolta abbiamo fatto un capolavoro di promozione, quasi al pari dei Testimoni di Geova con i loro opuscoli e libelli.
Comunque, conoscere da subito le sorti del nostro libro rende ancora più noiosa la mia mattinata, portando il mio organismo sull’orlo di una crisi di sonno improvvisa.
Devo combattere Morfeo a tutti i costi, anche perché se vengo di nuovo beccato a dormire durante un premio o una presentazione, è la volta buona che perdo il posto.
Alla mia sinistra c’è Silvia, l’autrice di Primavera Sterile, bravissima ragazza, per l’amor di Dio, ma noiosa come i suoi pantaloni a costine marroni (perché gli scrittori devono sempre vestirsi da scrittori? Maglione non troppo impegnativo, magari un po’ sgualcito, pantaloni di velluto e sciarpetta sempre attorno al collo, anche se dovessero trovarsi nella Death Valley in pieno luglio).
Alla mia destra, per fortuna, siede Alberto, vecchio compagno di università e infaticabile mitragliatore sparacazzate.
È grazie alle storie di Alberto -e ai tre caffè- che riesco a rimanere in uno stato più o meno decente, se si ignorano le occhiaie che poco a poco si allargano prendendo il sopravvento sul resto del viso.
Mentre mi racconta dell’ultima aspirante scrittrice che si è scopato, il mio pensiero vaga tra l’ilarità delle parole del mio amico e la pesantezza di quelle del presentatore della manifestazione.
Cerco di immaginare Alberto mentre si prodiga in un cunnilingus affondando fra le gambe di una giovane biondina sexy, ma la divertente scenetta è interrotta dalla mia coscienza, la quale, rientrando in me all’improvviso, mi ricorda che la cosa è solo frutto della mente visionaria di un cacciaballe.
È questo il brutto delle balle, il fatto che poi uno non ci crede.
Eppure sarebbe così bello se tutte quelle storie fossero vere: scopate, donne ubriache, modelle sotto la scrivania, fisting con la moglie del capo mentre lui è nell’altra stanza.
Alberto insomma è un cazzone, ma è anche un pezzo di pane, buonissimo, un vero amico.
E poi, mica è poco, mi tiene sveglio fino alla fine della premiazione.
A vincere è il giovane scrittore Luca Medeghino, con la sua opera prima, “Il volto di mia madre”.
È un buon libro, tutto dedicato alla madre e alla malattia che se l’è divorata.
In certi punti è terribilmente noioso, ma è scritto bene, emoziona ed ha un bacino di potenziali lettori molto ampio.
In fondo se lo merita, anche se Primavera Sterile viene molto probabilmente da una penna più ispirata, per quanto anch’essa incline alla noia mortale.
Pazienza, sarà per la prossima volta, per adesso mi preoccupo solo di tornare a casa e di riuscire a dormire un po’, visto che sono stremato dalla mancanza di sonno dovuta al mal di testa che in questo periodo si è fatto sotto come un pugile incazzato all’ultimo round.
Il grande capo mi passa a fianco, sorride ed è tanto rosso in viso da far apparire scolorita la sua cravatta carminio, mi rifila una pacca sulla spalla e dondolando fra le persone ed i sedili si avvia verso l’aria aperta.
Data la temperatura del teatro, anche Alberto si congeda: “Ci sentiamo una di queste sere, magari facciamo una birra sui navigli”.
“Perfetto”, rispondo io.
Imbottigliato nel traffico, cerco invano la via più rapida per arrivare a casa di Silvia, la quale intanto mi parla di come sia scandaloso che i premi letterari vengano vinti solo dagli editori più forti.
“È il marketing, baby”… Cerco di spiegarglielo ma sembra non capire.
Magari è un po’ ferita, un po’ disillusa. Ne ha tutte le ragioni, povera Silvia. Si veste come un professore di fisica ma è pur sempre una creatura dotata di un cuore.
La lascio stare, non merita le mie lezioni sul mondo, non oggi almeno.
Arrivo quindi alla meta, saluto la mia passeggera e riparto verso casa.
Appena entrato percorro veloce il corridoio, scendo in cucina e apro il frigorifero in cerca di qualcosa da bere. Tutto quel caffè mi ha impastato la bocca.
C’è solo acqua, ma non è un male.
Sollevo il capo e inizio a bere attaccandomi alla bottiglia, l’anidride carbonica solletica la mia laringe e mi gonfia un po’ le guance.
Mi fermo, immobile, con la bocca ancora piena d’acqua ghiacciata a tal punto da provocarmi un leggero dolore agli incisivi.
Sono in una specie di stato catatonico, come imbambolato.
I miei occhi però si muovono e scrutano gli oggetti sul tavolo: chiavi di casa, chiavi dell’auto, un badge con una mia foto sbiadita, il portafrutta con una banana annerita e una mela secca, la posta di qualche settimana.
Chiudo la porta del frigorifero, appoggio la bottiglia dell’acqua sul tavolo e mi metto a sedere davanti alla piccola e disordinata pila di buste.
Bollette e pubblicità, non si trova altro fra la posta, di solito.
Apro la busta sulla quale campeggia il logo della compagnia di telecomunicazioni che malauguratamente gestisce il mio telefono e cerco di capire come mai ogni due mesi la tariffa sembra aumentare.
Non capisco, quindi mi arrendo e lascio il prospetto del mio conto sul tavolo a far compagnia alla frutta marcia.
Il resto lo butto.
Riprendo la bottiglia e mi avvicino al soggiorno bevendo un altro sorso.
Accendo il pc e faccio partire il lettore, selezionando un disco a caso.
Mi sdraio sul divano senza accendere la luce e i TV on the Radio riempiono la stanza con la loro musica.
Chiudo gli occhi e inizio a dormire quasi subito, sento le punte dei piedi che si scaldano piano, mentre la musica spinge delicatamente la coscienza fuori da me.
Al risveglio mi sembra di aver chiuso gli occhi per una manciata di minuti, ma mi accorgo dalla temperatura dell’acqua che probabilmente ho dormito per più di un’ora, anche perché “ Return to cookie mountain” deve essere almeno al secondo giro.
Sdraiato sul fianco destro, posso vedere con la coda dell’occhio una luce intermittente rossa che, giuro, non mi capitava di vedere da anni.
Mi chiedo chi ancora ha il coraggio di lasciare messaggi in segreteria.
Ci sono gli sms, è la prima cosa che mi viene in mente.
Al momento non penso nemmeno al fatto che chi telefona possa essere sprovvisto del mio numero di cellulare.
L’unica cosa che mi gira in testa, che si fa spazio nella soffice confusione del risveglio, è la musica che durante il sonno si è propagata nei miei padiglioni auricolari.
Mi alzo e chiudo il lettore, facendo smettere di suonare Kyp Malone e soci.
Poi guardo lo schermo e in basso a destra ci sono due numeri che mi mettono agitazione: devo andare a cena con Claudio e Giulia, e lo devo fare tra 15 minuti.
Sono in ritardo, come al solito, per cui svolgo a velocità curvatura le seguenti attività:
_ Accendo una sigaretta.
_ Mi aggiro per la casa strofinandomi la testa e inciampando contro qualsiasi oggetto mentre cerco di recuperare dei vestiti che sembrino a posto.
_ Apro il getto dell’acqua e mi ci butto sotto prima di sondare la temperatura con la mano, causandomi ustioni diffuse su ogni parte del corpo.
_ Infilo vestiti, cappellino e scarpe, prendo le chiavi e spengo le luci.
_ Scendo le scale.
_ Bestemmio.
_ Risalgo le scale.
_ Rientro in casa, stavolta prendo il portafogli, riscendo le scale.
_ Accendo una sigaretta.
Quando finalmente arrivo al locale, il mio ritardo è di circa 26 minuti.
Claudio e Giulia stanno fumando appoggiati alla vetrina del locale, stretti per rientrare nel cono di luce calda dell’alogena.
Le loro facce sono rilassate, in fondo è una bella serata, non sarebbero capaci di arrabbiarsi per un così innocente ritardo. Anche perché ormai -si spera- mi conoscono e sono dunque coscienti del fatto che la puntualità è una dote che non ho (come quella di avvitare tappi in plastica su filettature in metallo, ma questa è un’altra storia).
Mi salutano, sono felici di vedermi, anche perché nell’ultimo periodo abbiamo avuto difficoltà nell’incontrarci e quindi un po’ ci siamo mancati.
Claudio è il mio migliore amico, lo conosco da fin dove arriva la mia memoria. Se penso a dei ricordi del mio passato, lui c’era, era lì con me.
È un architetto che si divide fra lo studio e le lezioni al politecnico, dove tiene un corso di “non-so-cosa 3D”. Dev’essere anche bravo nel suo lavoro, tanto che ne è oberato a tal punto di aver difficoltà nel trovare il tempo per nutrirsi; glielo dico sempre, io, che un giorno morirà di fame e che lo troveremo chino sui suoi progetti mentre avrà già preso le sembianze di un’enorme prugna secca.
Lavoro a parte, Claudio è il mio compagno di scorribande, di sbronze, di nottatacce e di molestie, ma, allo stesso tempo, è anche -insieme a Giulia- il mio confidente.
Certe volte penso che serate come questa, dove siamo a cena noi tre come fossimo una piccola famiglia, sono ormai un rito nel quale io mi confesso aprendomi totalmente nella speranza di essere illuminato da un consiglio dei due, i quali, ai miei occhi, sono più o meno la coppia perfetta e quindi hanno sempre ragione.
Giulia è l’opposto di Claudio; se il mio amico è sempre indaffarato, di fretta e incasinato in tutto e per tutto, la sua dolce metà è l’esempio vivente che la dottrina Zen funziona senza ombra di dubbio.
La calma in persona, davvero, ha sempre tutto sotto controllo. Con il suo nasino all’insù, il suo corpicino magro, i suoi capelli castani e il suo sorriso amichevole. Con lei va sempre tutto bene, i problemi si risolvono, le decisioni si prendono senza dolore e le sconfitte sono solo il motivo di una nuova risata. La adoro, non so che farei senza di lei, è come una sorella.
Per dirla tutta ha anche due palle grosse così, visto che per vivere insieme a Claudio ci vuole un coraggio non indifferente; il mio amico, oltre a vivere con dei ritmi che per gli esseri umani non cinesi sono insostenibili, è tutt’altro che una persona conforme al tessuto sociale. Lo definirei sui generis, giusto per non dire che è un pazzo fottuto. Eccentrico, iperattivo, chiassoso, senza pudore alcuno, sfacciato, burbero e materialista. D’acchito può sembrare l’essere umano più stronzo della terra ma, conoscendolo, ci si accorge che è solo una scorza, uno scudo, e che in realtà è una persona con un cuore enorme.
Certo, odia i preti, i comunisti, i fascisti, i discotecari, quelli che vanno nei centri sociali, quelli che votano Berlusconi, quelli che votano sinistra, quelli che pensano che la sinistra esista ancora, quelli che corrono in città, quelli che si spostano in bicicletta, quelli che non attraversano sulle strisce (l’ho detto che è un pirata della strada, no?), quelli che attraversano sulle strisce, quelli alti, quelli bassi, quelli stronzi e quelli grassi.
Ecco, si capisce in parte da dove arriva la mia infinita stima nei confronti di Giulia.
Che donna! l’unica che riesce a tenerlo a bada. Le basta un sorriso, una frase, un movimento delle mani e lui si placa. Ce l’avessi io, una Giulia…
Comunque, quando mi vedono arrivare mi accolgono con un sorriso, senza farmi pesare il ritardo. Anzi, Giulia mi abbraccia forte e mi schiocca un bacione sullo zigomo, mentre Claudio, vabè, lui forse un po’ bestemmia mentre mi saluta.
Entrando nel locale mi accorgo dalle maschere pseudo-Azteche che sto per mangiare pessimo cibo messicano dal costo non proprio irrisorio.
Il vero dramma però riguarda il beveraggio: Miller. Porco Cristo.
Ci adeguiamo, anche perché il calore della compagnia è tale da farmi dimenticare la schiuma saponata che una delle peggiori birre al mondo riesce a formare quando si mescola ai cibi piccanti.
Mentre anestetizziamo le nostre cavità orali con ogni specie di peperoncino esistente, cominciamo a parlare di tutto, del più e del meno, come si dice.
Dopo qualche avventura urbana di Claudio (lite con le suore al semaforo compresa) e qualche aneddoto di Giulia, ecco che parte il terzo grado sulla mia vita.
Mi chiedono come me la passo, se per caso ho trovato la ragazza, perché sono preoccupati del fatto che me ne sto sempre solo.
Io spiego loro -come se poi non lo sapessero- che da solo ci sto benissimo, che non sento affatto il bisogno di un’altra persona per vivere meglio e che è per questo motivo che non ho una da anni compagna.
Certo, qualche amica ogni tanto mi fa compagnia, mi aiuta a non annegare dentro me stesso, ma sono sempre troppo vigliacco o troppo insofferente per creare qualcosa di duraturo.
Giulia mi rimprovera sempre di non avere abbastanza sensibilità per riuscire a capire cosa voglio.
Forse ha ragione, Giulia raramente si sbaglia.
Poi arriva la domanda che mi fa tremare:
“E quella ragazza che hai conosciuto al Lips?”
Io: “quale ragazza?”, esclamo mentre cerco di guardare nient’altro che il fondo ambrato del mio bicchiere.
Giulia: “dai, non fare lo stronzo, quella che ti sei portato a casa e che se n’è andata la mattina…quella del bigliettino e tutto il resto”.
“Quale resto?” rispondo fingendo di essere arrabbiato.
“Claudio me l’ha raccontato, che ti sei preso una cotta per quella che ti ha usato!”.
“Non mi ha usato!”.
“Vabè, però devi ammettere la cotta”.
“Cazzo, che palle, Cristo, Giulia.”
Dopo queste 5 parole inizio a raccontare la storia (sempre ammesso che poi lo sia, una storia) dell’incontro con Cristina.
Claudio ride mentre gli descrivo i miei sentimenti da tredicenne e ci tiene a sottolineare il fatto che probabilmente sono invaghito di questa ragazza perché in realtà non la posso avere. Secondo lui io perdo interesse nelle ragazze nel momento in cui so di poterle avere.
Non so se abbia ragione o no, però il fatto che questa storia sia fumosa e sfuggente certamente la rende più fascinosa e, per quanto non dia peso ai racconti che riguardano Romeo, quello che mi rimane dentro è una sensazione di angoscia e di inquietudine quasi immotivata.
Giulia invece è per una linea più semplice e materialista, dice che Cristina è semplicemente pazza, che una persona normale non fugge così e, cosa più importante, non mi tira in mezzo a storie -secondo lei di fantasia- su scrittori e omicidi: “Soprattutto perché tu lavori per un editore…questa ha mangiato la foglia, vedrai che si ripresenterà, ti scoperà e poi ti confesserà che ha scritto tutta la storia di Romeo pregandoti di pubblicarla. Tu ci proverai e il Grande Capo ti dirà che piuttosto di pubblicare quella roba si fotterebbe una nutria.”
Le donne hanno sempre le idee chiare, l’ho sempre sostenuto io.
E il mio capo usa spesso metafore colorite.
Comunque, tra un piatto e l’altro, riesco quasi a convincerli che questa Cristina è uscita dalla mia vita e che mi è già passato tutto. O almeno così mi fanno credere, visto che Claudio non mi ascolta più perché è impegnato a litigare con il cameriere riguardo la cottura della bistecca e Giulia accenna un sorriso di circostanza mentre annuisce dicendo “se, se, se…”.
Finita la cena usciamo a fumare e poi ci incamminiamo lentamente risalendo il naviglio in direzione della Porta. Io penso che è bello ogni tanto passare del tempo con loro, mi sento bene, mi sento a casa.
Mentre soffio il fumo caldo fuori dal mio corpo, mi accorgo di come sia particolarmente freddo e secco il clima, cosa rara in una città che vive immersa nell’umidità più assoluta. Il vento sa di montagna e l’aria è elettrica, i capelli lunghi delle donne sono vaporosi e lucenti, mentre l’acqua del canale risplende riflettendo una luna che così accesa la si vede di rado in questa zona del mondo.
Un leggero mal di testa mi accompagna lungo il Corso, ma non mi spaventa, non è un attacco forte, lo so, sento che è una leggera emicrania, quasi piacevole, confortante. È un cerchio alla testa che sembra dirmi “tranquillo, ci sono qui io, oggi non c’è il male devastante, stai sereno e passa una buona serata”.
Mi viene da sorridere e lo faccio, nascosto dal bavero della giacca.
Giulia mi vede e scoppia a ridere: “Oh matto, che fai, ridi da solo?”.
“Pensavo…”, rispondo io.
La serata finisce poi a casa della coppia, tra una sigaretta e un bicchiere di whiskey. Io mi apro ancora un po’, raccontando loro i miei problemi con il mal di testa e dicendo che Cristina sarebbe stata la donna della ma vita, se solo l’avessi potuta avere e non si fosse dissolta nel nulla come una boccata di fumo.
Dopo qualche ora sembro un vecchio ubriacone da bar che racconta senza filtro alcuno i propri tormenti e le proprie paranoie; capisco che è giunto il momento di tornare a casa, sono abbastanza cotto.
Mi congedo abbracciandoli, sono passate le 3 da un pezzo e la mia bocca puzza di legno bruciato.
Ma sono felice, mi erano mancati.
E poi ogni tanto bisogna pure sfogarsi, raccontare le proprie storie, le proprie avventure. Anche quelle interiori.
Vivremmo per niente altrimenti. È per questo che esistono i libri, il cinema, gli amici. Per raccontare.
Tornando a casa mi sento Don Abbondio, cammino pensoso con il capo chino sul marciapiede cercando di scalciare lontano dalla mia via gli oggetti che trovo sull’asfalto come se fossero i pensieri negativi e i problemi che affollano la mia mente.
Alla mia sinistra due barboni litigano contendendosi un cartone di vino.
Io mi sento un puntino, piccolo, sovrastato da un milione di voci, di città, di storie, di universi infiniti.
Forse ho bevuto troppo Lagavulin.
Arrivato a casa mi accorgo che la testa inizia a farmi male sul serio, così decido di prendere due bombe di Almotriptan, fingendo di non ricordare tutto quello che ho bevuto durante la serata.
Mi siedo sullo sgabello e, mentre i muscoli della gola si comprimono per aiutare la discesa delle pastiglie lungo l’esofago, vedo di nuovo quella luce rossa intermittente.
Il messaggio in segreteria.
Un primo forte istinto mi dice di cancellare senza nemmeno porsi una domanda, ma poi cedo, e il mio dito si sposta dal tasto “delete” al triangolo che indica play.
Decido quindi di ascoltarlo, perché sono mezzo sbronzo, perché ho appena preso un farmaco ammazza fegato e, cosa più importante, perché sono stronzo.
Silenzio.
Rumore di fondo.
Poi quella voce.
Lo stomaco si chiude, mi tremano le gambe e mi sudano la mani:
“Ciao, sono io… sono Cristina… ho bisogno di te. Dobbiamo vederci, io non…non posso farcela da sola. Scusami, ti prego… non avrei dovuto trascinarti in tutto questo…scusa, davvero. Ma ho bisogno di te. Sono in Belgio, ti prego, incontriamoci…lo so che è folle, da pazzi…ma non so come fare. Ci vediamo fra tre giorni a Bruges, al Lybeer Hostel…cercalo…io sarò là, a mezzogiorno. Se non vuoi io ti capisco sai…detto così, dal nulla, è una pazzia che ti chiedo…ma sei il solo che mi può aiutare. Giovedì, a mezzogiorno. Lybeer Hostel. Bruges. Io sarò lì…”
L’Almotriptan mi risale in gola, amarissimo, mentre il cuore batte impazzito al punto che sembra debba dilaniarmi il petto ed esplodere fra le mie costole.
Sono frastornato, non capisco, devo riascoltare altre 3 o 4 volte.
La sua voce è inquieta, spaventata, ma il tono è pacato e quasi dolce, sembra più una gentile richiesta che un disperato sos.
Il tono fa a pugni con il contenuto, lo so mica se è un buon segno.
Cazzo.
Lo dicevo che questa è pazza, me l’ha detto anche Giulia, lei non sbaglia mai.
Ora, secondo lei, io dovrei partire per una città straniera per andare ad aiutare -come poi?- una quasi sconosciuta che è invischiata con un probabile assassino.
Siamo alla follia più totale, al degenero completo.
Non ci penso nemmeno.
Il giorno dopo Mara, la segretaria, riesce a sentire le urla del Grande Capo fin dal piano di sotto:
“… ma questo è l’ultimo weekend lungo, intesi!?! Non mi fotti più caro il mio giramondo! Ah no! Quando rientri mi sistemi tutto l’archivio della cantina! E te lo do io il weekend esotico, tra i ragni e la muffa! Tu e le tue richieste a cazzo di cane! Portami almeno della birra come si deve, altrimenti è la volta buona che mi ti levo dai coglionacci!”
“Sì, boss, grazie”
“grazie ‘sta ciolla…e mi raccomando, scura, per Dio!”
“Eh?”
“La birra, idiota, portamela scura, non mi piace il piscio di gatto, lo sai”
“ti voglio bene boss”
“vaffanculo”.
sabato 22 gennaio 2011
mercoledì 30 settembre 2009
Ancora una lunga pausa, ancora un altro periodo di calma dovuto ai miei disturbi.
Cerco di dormire e di far calmare il mal di testa, ma non sempre ci riesco.
Comunque, voglio scusarmi per il mio assenteismo, ma ora che ho un pc anche qui in clinica spero di poter fare di meglio.
Voi non abbandonatemi.
"Non c'è via di fuga per chi vive in fuga", lo dice anche Palahniuk.
Questo è il terzo capitolo delle cronache della follia di Romeo:
LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #3
Era trascorso poco più di un mese dall’ultima esplosione del mio Passeggero, tuttavia sentivo di aver acquisito una nuova lucidità, una ferma e sorprendente prospettiva.
L’angolo con il quale si guardano le cose è basilare, anche se a volte tendiamo a dimenticarne il profondo significato.
Ci scontriamo con le superfici altrui ignorando che le persone sono mezzi diversi fra loro.
Per questo è molto utile conoscere l’angolo con il quale la nostra radiazione arriva al fluido degli altri.
Una porzione di noi sarà sempre respinta, con angolo identico a quello di arrivo anche se opposto rispetto alla bisettrice della somma dei due, mentre ad una parte della nostra banda sarà possibile penetrare in un mezzo altrui.
Se conosciamo a sufficienza il nostro mezzo e quello con il quale ci imbattiamo, possiamo predire la direzione del nostro fluido.
Dobbiamo però conoscere l’angolo di arrivo per poter determinare la deviazione della nostra banda una volta superata la soluzione di continuità.
Eccolo, il trucco.
Dobbiamo stare attenti all’ottica delle cose, alle rifrazioni, agli angoli.
Possiamo provare a collidere mille volte con una superficie altrui, ma se arriviamo con l’angolo sbagliato tutta la nostra banda non raggiungerà il punto giusto. E a quel punto si sarà trattato solo di un spreco di forze, un tentativo inutile.
Se invece si possiede l’accortezza di capire, e quindi di decidere l’angolo d’incidenza, allora si può penetrare e colpire il cuore.
Negli ultimi tempi avevo avuto modo di affinare la mia tecnica e cominciavo a fare esercizio per sfruttare al meglio questa capacità.
Riuscivo a gestire bene le cose perché riconoscevo i differenti approcci da avere in funzione delle situazioni che mi si presentavano davanti.
Nei casi più fortunati riuscivo addirittura ad esercitare un sorta di potere, di malia, in modo da entrare nei mezzi altrui e colpire il cuore delle cose.
Se la situazione richiedeva che fossi comprensivo e dolce, d’un tratto mi trasformavo in un ragazzo ben educato, altruista e disposto ad aiutare gli altri, tutto moine ed empatia.
Se, al contrario, occorreva che fossi rude e dominante, ecco di colpo la mia trasformazione in un cattivo ragazzo di strada.
Come un nuovo Leonard Zelig. O come albero da riva, se preferite, che si piega per non rompersi mai.
La sera della festa ottenni i risultati di due applicazioni della mia tecnica. Opposti e sorprendenti, da alcuni punti di vista.
In quei giorni avevo iniziato a testare le mie capacità usando i miei metodi su due ragazze molto diverse fra loro, entrambe interessanti e in qualche modo uniche.
Cristina era all’apparenza una ragazza molto schiva e riservata, di quelle che servono anni di conoscenza per averle dalla propria parte.
Bellissima, i capelli castano scuro non troppo lunghi e gli occhi magici come possono esserlo solo quelli delle ragazze tristi.
Faceva effetto nel vederla e, di acchito, poteva tranquillamente sembrare il prototipo della ragazza difficile, dell’introversa, della figa di legno.
E in effetti doveva proprio esserlo, con gli altri.
Io li vedevo tutti quei ragazzi che le giravano intorno, storditi dal suo profumo, come dei cagnolini girano attorno al padrone che porta loro il cibo.
Con me invece era completamente diversa, un’altra persona.
Perdeva quell’aria di essere superiore e celeste e diventava di carne e sangue come tutti gli altri umanoidi.
Io riuscivo a penetrare nel suo mezzo, stordendola e in qualche modo mettendola in una posizione di evidente sottomissione.
Suscitavo l’invidia di tutti i conoscenti.
Cristina la dea, la Iside, la donna dei sogni.
Io l’avevo ai miei piedi e non dovevo nemmeno sforzarmi troppo per mantenere questa relazione in omeostasi.
Il trucco stava nell’aver azzeccato l’angolo con il quale si doveva collidere con la sua anima, con il suo io di ragazza eternamente triste per via di vecchie e profonde ferite.
Le inarrivabili sembra sempre che abbiano un passato oscuro che le tormenta.
Le facili invece lo hanno per davvero, il passato oscuro e pieno di problemi, solo che loro si sfogano con i rapporti interpersonali. Col sesso, con le droghe. È la loro via di fuga.
Cristina dunque era una bellissima altezzosa problematica e refrattaria ai rapporti, di quelle che con i loro occhi di velluto rubano le anime degli uomini sprovveduti.
Direi che rientrava bene nel tipo uno.
In tal caso serviva quindi avvicinarsi piano, far finta di non notarla e anzi, se si poteva, trattarla un po’ male, come se lei fosse una delle tante.
Senza darle mai l’impressione di essere interessato, giravo intorno ai problemi di Cristina come un avvoltoio gira intorno ad una carcassa marcia. Cominciai a cibarmi di lei appena per errore si espose al mio attacco. Che io sferrai, ovviamente, usando un angolo misurato con la dovuta perizia.
Era una ragazza estremamente intelligente, eppure si accorse di nulla, non ebbe nemmeno il sentore, non il più lontano presentimento del fatto che io stessi applicando un metodo scientifico e rigoroso per farla mia.
La conoscevo da due settimane quando m’invitò alla festa di laurea di alcuni suoi amici, due nuovi dottori ben vestiti e sorridenti, pronti a sfondare qualsiasi porta senza girarsi mai per vedere la propria ombra che li insegue. Beati loro, così leggeri e determinati da non vedere la miseria, da non accorgersi del nulla assoluto.
Alla festa incontrammo anche Anna, pronta a festeggiare con noi -non che a me fregasse un cazzo- il titolo conseguito dai novelli dottorini junior (è così che si chiamano ora?).
Lei l’avevo conosciuta la sera in cui vidi per la prima volta Cristina, in occasione di una cena a casa di amici comuni.
Fu esattamente quella sera che decisi di provare i miei “angoli” sulle due.
Se però con Cristina le cose erano facili e dalla curiosità di provare la mia capacità di impormi era nata anche una specie di relazione, con Anna non avevo avuto il medesimo successo.
Mi dava dei grossi problemi, del filo da torcere, come si suol dire.
Mi vedeva dentro, cazzo, ero traslucido per lei, come se tutti i miei modi di fare e le mie tecniche fossero inutili.
La cosa buffa, oltretutto, è che Anna non era un tipo difficile come lo era Cristina, piuttosto posso dire che sembrava una di quelle ragazze carine e disponibili, che danno confidenza a chiunque le conosca, senza distinzioni particolari. Anna era insomma il classico tipo facile da conquistare, magari di quelle con veri problemi nel loro passato ma che hanno molta più forza di quanto si crede, per cui i miei tentativi di scardinare il suo mondo non funzionavano affatto.
Avevo provato ad accedere alla sua anima con tutti gli angoli che conoscevo, avevo usato tutte le prospettive, tutte.
Niente da fare, per me era una muraglia impossibile da penetrare, una fortezza.
È un paradosso, ma per gli altri era probabilmente facile da conquistare, al contrario di Cristina, eppure io non riuscivo a trovare il modo.
Non che volessi conquistarla per averla o per portarla a letto, dato che avevo già Cristina (la quale mi piaceva molto di più), solo che ero curioso di sperimentare nuovamente i miei metodi.
Certo, c’era anche una buona dose di ego e di desiderio di potere dietro tutto, lo sapevo, ma era in gran parte curiosità.
Per farla breve, alla festa tutti mi guardavano con occhi invidiosi perché ero il nuovo compagno della stupenda e irraggiungibile Cristina, eppure io non riuscivo a fare presa sulla più modesta e accessibile Anna.
Un mistero, per me.
Mi sarei aspettato di faticare moltissimo con la prima, invece mi ritrovavo nella situazione opposta a quella dettata dalle apparenze.
La teoria e la pratica non sempre coincidono.
Arrivammo al locale abbastanza presto, camminando per la strada che passa sotto la torre e che porta al locale, esattamente dietro la Triennale.
Avevamo sui visi l’espressione di entusiasmo misto ad imbarazzo tipica delle nuove coppie che si trovano a partecipare ad eventi che li espongono verso tutti gli altri conoscenti.
Da una parte ci si sente eccitati di mostrare il partner ai propri amici, dall’altra si percepisce di essere come sotto osservazione, al centro dell’attenzione e dei pettegolezzi, per cui anche i gesti più normali diventano come un po’ meccanici ed impacciati.
Io mi fingevo felice di conoscere quella mandria di zucche vuote che erano alla festa e dentro di me pensavo solo ad andare verso il bancone.
Certo ero felice di stare con Cristina, probabilmente non avrei dovuto voler nulla di meglio dalla vita, ne ero al corrente ma, come al solito, dentro di me si faceva già vivo il sentimento nero di oppressione che mi condannava a vivere come un emarginato da ormai qualche tempo.
Era un serpente concettuale che si annidava nelle mie viscere e che con le sue spire mi soffocava dall’interno. Rendeva tutti i miei tentativi vani.
La ragazza perfetta, la scrittura che cominciava a fluire, averla fatta franca con i due omicidi.
Dovevo essere al settimo cielo, invece mi sentivo soffocare.
Stavo di nuovo sentendo esplodere il mio Passeggero, ed io mi accorgevo che lasciarlo libero era l’unico modo per poter continuare a sopportare me stesso ed il mondo intero.
Gli uomini non si sopportano, l’umanità intera non si sopporta, ve lo dico io. Per questo ci ammazziamo, ci spariamo, lanciamo missili o ci imbottiamo di esplosivo per farci saltare in posti affollati.
È per lo stesso motivo che chi ci ha concepito ha pensato di obbligarci al sonno.
Dobbiamo dormire, perché non ce la faremmo a sopportarci per 24 ore di fila. Ci odieremmo, arriveremmo ad ucciderci.
Dobbiamo dormire per un terzo della nostra esistenza in modo da poter convivere col fottuto noi stesso.
Io questo lo sapevo e non potevo di certo reprimere tutta questa schifezza spingendola di nuovo in qualche parte remota della mia mente, quindi, una volta arrivato al locale, cominciai a pensare come cercare di spegnere le scintille di oblio che mi affollavano i pensieri.
Ovviamente, appena riuscii a liberarmi dei convenevoli legati alle nuove e non interessanti conoscenze, mi fiondai al bancone.
L’alcool mi teneva buono, affievoliva in me il desiderio di apocalisse nucleare che provavo in certi momenti.
Lasciai dunque Cristina ad un gruppo di quattro o cinque spasimanti dalle cappelle sempre bagnate e mi sedetti sullo sgabello del bancone, a quell’ora per fortuna non ancora affollato.
Li udivo provarci con la mia donna, ma non m’importava. Avevo io le chiavi di casa, i ragazzini sarebbero rimasti fuori, questa sera come le altre.
Mentre sorridevo nel sentire i loro ridicoli modi di bullarsi per mettersi in competizione l’un l’altro e dimostrarsi i galli più cazzuti del pollaio, decisi di ordinare da bere.
Una vodka doppia era quello che ci voleva, per sistemare almeno temporaneamente il mio demone.
Assaporando con la punta della lingua il liquido all’interno del bicchiere potevo accorgermi del cambiamento organolettico che ha luogo appena il distillato viene a contatto con le papille gustative; il freddo dovuto alla bassa temperatura della bevanda stava lasciando posto ai 37 gradi della mia carne e in questo passaggio sembrava quasi di cogliere la fase acquosa in separazione dall’alcool che, evaporando, lasciava sulla superficie esterna della mia bocca una sensazione di fresco secco.
Mentre mi godevo quell’attimo e provavo stupore per come ogni volta in quel preciso istante si faceva vivo il sapore del grano sul mio palato, qualcosa distolse i miei pensieri bruscamente.
Era la voce vivida e gioiosa di Anna, che mi salutava con un “eeehhhiiiiiii” lungo un’eternità.
Si mise a sedere in fianco a me e ordinò un daiquiri.
Il suo sguardo era come un’arma carica puntata al cuore, non avevo modo di sottrarmi a quella minaccia e mi sentivo terribilmente in difficoltà, in ridicola difficoltà.
Cominciammo a parlare di argomenti perlopiù futili, ed io non riuscivo a concentrarmi granché sulla conversazione, dal momento che non ero in grado di tenere sotto controllo i suoi occhi indagatori.
Ma non erano solo gli occhi, no, era tutta Anna che si sottraeva alle mie tecniche e rispondeva agli attacchi con nuovi e più potenti metodi di sottomissione. Faceva quel giochetto con la bocca, ovvero schiudeva leggermente le labbra, spostando con grazia la mandibola verso l’arcata fissa della mascella, come se stesse stringendo i denti senza però farli toccare tra loro. Come la smorfia che si fa quando si sente un leggero dolore, sia una puntura d’insetto o una piccola bruciatura.
Lo faceva anche quando rideva, lasciando in questo caso più scoperti tutti i suoi perfetti denti bianchi che risaltavano alla luce scintillando di saliva.
Questi piccoli movimenti dei muscoli del suo viso erano per me al tempo stesso deliziosi e orribilmente fastidiosi, dal momento che non solo mi distraevano dall’applicazione meticolosa delle mie tecniche, ma riuscivano anche a catturarmi e a farmi entrare nel suo mondo, nel suo gioco.
Finivo cioè col farle delle domande, con l’interessarmi a lei e magari addirittura con l’espormi pericolosamente in prima persona.
Era come le lei sapesse già tutto di me, in che modo non saprei dirlo, forse tramite divinazione che seguiva ai rituali meticolosi del controllo dell’altro tramite mimica facciale e uso dell’apparato boccale.
In ogni caso era pericolosa per me, perché sarei potuto arrivare al punto di raccontarle tutto, i miei disturbi, i miei piaceri, il mio Passeggero.
Per fortuna, le feste sono ricche di personaggi molesti che saltano fuori all’improvviso pronti per troncare i dialoghi -quasi- seri che prendono vita davanti ai banconi dei bar.
Grazie a qualche amico di Anna, infatti, riuscii ad evitare di sondare il mio io ancora più e a trattenermi dal per vomitarlo poi davanti alla mia interlocutrice.
Qualche istante frenetico di abbracci e baci, battute volgari e scontate, sorrisi e strette di mano; questo bastò per rompere l’incantesimo e per salvarmi dall’errore.
Poi piombarono su di noi i festeggiati, lui in completo e lei con un vestito da almeno 1000 euro, ci fu baldoria, io mi ricongiunsi alla dolce Cristina e allontanai da me i pensieri malvagi provando ad essere, non dico una persona normale, ma almeno non un disadattato pazzo omicida.
La serata insomma stava scivolando via tra sigarette, drink e pisciate.
Verso le 2 però, nel pieno della notte e dei festeggiamenti, Cristina si allontanò per parlare con degli amici e io fui di nuovo intrappolato da Anna.
Arrivati al “secondo me non pensi tutte le cose che dici”, le chiesi se potevamo uscire un attimo da quella bolgia e andare a fumare una sigaretta in un luogo dove avrei potuto evitare di dover leggere le labbra per capire le sue parole (e in questo caso leggere le labbra era pericoloso, essendo la bocca la sua arma migliore).
Nello spazio che ci separava dal luogo dove la stavo portando a sua insaputa, c’erano almeno 200 persone, due file di macchine, un semaforo e un camioncino fermo sul marciapiede a lavorare come chiosco panini e bibite.
Dovevo concentrarmi nel procedere in maniera da non attirare l’attenzione della gente; ormai ero diventato più accorto nel preambolo e nei preparativi, si sa mai che qualche piccolo dettaglio possa rivelarsi in futuro un grosso errore.
Camminavo quindi con la testa bassa, cercando di tenermi in mezzo alla gente in modo da confondere la mia sagoma e quella della mia vittima con le altre che seguivano la piccola via oppure che si apprestavano ad attraversare al semaforo.
Una volta giunti dall’altro lato della strada, cominciammo a passeggiare con più calma, parlando di tutte le cose delle quali non si dovrebbe parlare mai, dalla propria infanzia fino ai demoni più recenti.
Io ero ormai completamente trasparente e le avrei anche confessato che mi stavo portando dentro un brutale assassino, non fosse che l’avrei spaventata e non avrebbe quindi mai accettato di venire a vedere la centrale di distribuzione dell’acqua che si trovava proprio in fronte al locale.
Sembrava anche divertita quando cambiando discorso le spiegai a cosa servivano quelle cisterne e perché era necessario avere dei filtri a carboni.
Comunque, per me era sufficiente distrarla e passeggiare attorno alla struttura fino a raggiungere la zona posteriore che era completamente nascosta e all’ombra di qualsiasi luce artificiale, ma fu lei ad avere l’idea più brillante: “scavalchiamo”.
E così fummo dentro, nel buio, senza che occhio potesse vederci (l’unico occhio del quale mi preoccupavo era quello della telecamera che, per mia fortuna, era orientato verso una sola zona della stazione).
Anna camminava divertita davanti a me, mentre io cercavo di capire come fosse possibile che i miei comportamenti non l’avessero insospettita.
Quando arrivammo nella zona più buia, quella che ospita le cisterne con i filtri, sentii il tremore, quello che ormai mi ero abituato a riconoscere.
Mani che pulsano e sudano, vene sulle tempie che battono, aritmia, la gola che si gonfia e non vuole far passare l’aria.
La figura nera di Anna mi precedeva nel buio lasciando una scia di profumo ed io ero pronto per cedere il controllo al mio Passeggero.
L’arma che nell’impeto decisi di usare era la cintura che indossavo, una lingua di nylon spessa e resistente.
Sentivo gli occhi schizzarmi fuori dalle cavità, tanto il cuore pompava con violenza il sangue, ma le mie mani erano ferme e decise.
Tolsi la cintura e rapidamente la avvolsi attorno alle mani, rivoltandola un paio di volte, come si fa con una corda quando la si deve tirare con maggior efficacia.
Senza quasi rendermene conto, mi avvicinai con rapidità alla mia vittima facendo passare velocemente la fettuccia oltre la chioma corvina che le copriva la testa e, non appena ebbi superato il viso, tirai verso di me la cintura con tutta la violenza che avevo dentro.
A quel punto incrociai le braccia, per moltiplicare l’effetto della mia forza.
Il risultato fu spaventoso, terrificante.
Il suo collo fece un rumore fortissimo, come una pietra pesante che viene lasciata cadere dal tetto di un palazzo o addirittura come due grosse automobili che collidono in un incidente stradale.
Mi spaventai nel sentire quel rumore, tanto che allentai di colpo la morsa e lasciai cadere il corpo senza turgore di Anna.
L’avevo uccisa con un solo colpo, un gioco da ragazzi.
Prendere una vita ad una ragazza ignara delle intenzioni del proprio assassino è questione di attimi, se poi si possiedono forza fisica e tempismo, diventa davvero banale.
Così tanta fatica per nascere, restare in vita, combattere con questa merda di entropia e poi arriva un quasi sconosciuto e ti uccide con una cintura.
Davvero mi chiedo, nel caso dovessi avere mai dei figli, se avrò il coraggio di buttare altre anime sul fuoco di questo mondo.
Probabilmente no, non potrei mai fare un torto così grosso al sangue del mio sangue.
Nessuno si accorse della mia assenza (è questo il bello delle feste), solo Cristina mi si avvicinò per chiedere dove fossi andato a finire.
Risposi “a pisciare”, facilissimo metterci più del previsto, visto il delirio di quei cessi che, dato che non erano abbastanza frequentati, qualche stilista di architetture interne aveva deciso di fare per tre quarti promiscui.
Comunque, passai ancora un’altra ora a bere vodka e a fumare sigarette nell’attesa che il casino scoppiasse.
Ero seduto a parlare con Cristina su di un divano nel mezzo del giardino del locale e, nonostante il caldo terribile, riuscivo a non sudare e a provare una sensazione fantastica, di liberazione, quasi di gioia.
Mi sentivo fresco e rilassato, come dopo un orgasmo.
Poi, il casino scoppiò.
Nessuno riusciva a trovare Anna, il suo cellulare suonava ma le chiamate non avevano risposta.
Io solo ero al corrente, io solo sapevo che il suo telefono era a duecento metri da noi; vibrava, s’illuminava e suonava nel buio, come un disperso che chiama aiuto dal fondo di una valle sconfinata e solitaria.
Passarono i minuti e poi i minuti divennero mezz’ore, la gente cominciava ad abbandonare la discoteca e il giardino di conseguenza si svuotava delle orde festanti che lo occupavano.
Gli unici a non lasciare il locale erano gli amici intimi di Anna, quelli con i quali era venuta alla festa, quelli con i quali se ne sarebbe dovuta andare.
Anche Cristina era preoccupata, continuava a ripetere che Anna non era la tipa da abbandonare il posto senza avvisare i suoi amici.
Negli occhi della mia compagna potevo leggere con chiarezza il presagio che si faceva via via sempre più reale e concreto.
Fu una cosa molto triste.
È sempre brutto vedere qualcuno che soffre pensando ad una persona che in un modo o nell’altro scompare.
Quanto a me, io sono una bestia, un egoista del cazzo, un assassino, uno stupratore, uno strangolatore.
Io non ho un cuore, non ho sentimenti, ho solo merda e viscere tiepide.
Lasciammo anche noi la discoteca quando era ormai mattina, per dirigerci verso casa di Cristina, la quale era sempre più inquietata per sparizione della sua amica.
Arrivati a casa ci spogliammo in maniera confusa, seminando indumenti per le stanze e arrivando quasi carponi al letto. Ci sdraiammo e aspettammo abbracciati il sonno.
Cristina era bella da togliere il fiato e il mio cuore bastardo correva fortissimo per ricordarmi che le mie interiora avevano il dominio sulla mia persona esterna.
Cercai di non pensarci e chiusi gli occhi.
Nel sonno, sognai di essere al centro di un antico anfiteatro romano, durante una notte ventosa ma tiepida. Mi sentivo terribilmente impaurito e giravo vorticosamente alla ricerca di qualcosa, mentre nel cielo una tonda luna di ghiaccio rubava la luce al sole per proiettarla tetramente su tutta la costruzione.
D’improvviso, una visione mi gelò il sangue nelle vene: sotto una volta dell’anfiteatro, in penombra, una figura umana con una tunica nera dal grosso cappuccio agitava qualcosa tenendo le braccia all’altezza del viso. La vista di quella persona mi pietrificò, provocando in me una sensazione di orrore che mai nella vita avevo provato. Fu come guardare la morte.
Lentamente questa persona si spostò dalla lingua d’ombra che la pietra dell’arcata lanciava sul suolo e finalmente riuscii a vedere cosa teneva fra le mani.
Era un neonato.
Un piccolissimo bambino avvolto in una coperta marrone scuro.
Il bambino non emetteva gemiti e la losca figura non mi parlava; gli unici suoni che riuscivo a percepire erano quello del vento e quello che, più in sottofondo, sembrava ricordare il motore di una grossa nave o, più semplicemente, quello di una centrale di distribuzione dell’acqua.
Poi la figura spaventosa con la tunica nera alzò di scatto il bambino sollevando un braccio, tenendolo per una caviglia e lasciandolo penzolare a testa in giù.
Il piccolo cominciò a strillare in maniera assordante ed io percepii il suo timore, la sua sensazione ancestrale dell’essere in pericolo.
Avrei voluto intervenire, fare qualcosa, strapparlo dalle mani di quella “cosa”, ma non riuscivo a muovermi dalla paura.
Non si muoveva nemmeno un muscolo, come in una paralisi ipnagogica.
D’un tratto la sagoma scura aprì la mano lasciando precipitare il bambino verso il suolo.
Io urlai fortissimo, svegliandomi completamente sudato al fianco di Cristina, la quale con una mano sul mio petto cercava di tranquillizzarmi.
Poi mi riaddormentai, in posizione fetale, schiacciandomi contro il corpo caldo della donna che stava al mio fianco.
Al risveglio avvertii la solita sensazione di nausea e, dopo aver vomitato svariate volte, mi resi conto di un particolare: quel suono sordo e continuo non cessava di rimbombare nelle mie orecchie.
Col passare delle ore si affievolì, ma da quel giorno i disturbi uditivi mi avrebbero perseguitato, causandomi forti mal di testa.
Cominciavo quindi a capire.
Io mi liberavo dell’insofferenza alla vita rigurgitando il mio Passeggero, il quale si prendeva qualcosa dal mondo come pegno per la mia stabilità, ma poi, il mondo, con una specie di contrappasso prendeva qualcosa a me.
Alterandomi il campo visivo, scheggiandomi un dente, lasciando la scia di un rumore lontano dentro la mia testa.
Cerco di dormire e di far calmare il mal di testa, ma non sempre ci riesco.
Comunque, voglio scusarmi per il mio assenteismo, ma ora che ho un pc anche qui in clinica spero di poter fare di meglio.
Voi non abbandonatemi.
"Non c'è via di fuga per chi vive in fuga", lo dice anche Palahniuk.
Questo è il terzo capitolo delle cronache della follia di Romeo:
LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #3
Era trascorso poco più di un mese dall’ultima esplosione del mio Passeggero, tuttavia sentivo di aver acquisito una nuova lucidità, una ferma e sorprendente prospettiva.
L’angolo con il quale si guardano le cose è basilare, anche se a volte tendiamo a dimenticarne il profondo significato.
Ci scontriamo con le superfici altrui ignorando che le persone sono mezzi diversi fra loro.
Per questo è molto utile conoscere l’angolo con il quale la nostra radiazione arriva al fluido degli altri.
Una porzione di noi sarà sempre respinta, con angolo identico a quello di arrivo anche se opposto rispetto alla bisettrice della somma dei due, mentre ad una parte della nostra banda sarà possibile penetrare in un mezzo altrui.
Se conosciamo a sufficienza il nostro mezzo e quello con il quale ci imbattiamo, possiamo predire la direzione del nostro fluido.
Dobbiamo però conoscere l’angolo di arrivo per poter determinare la deviazione della nostra banda una volta superata la soluzione di continuità.
Eccolo, il trucco.
Dobbiamo stare attenti all’ottica delle cose, alle rifrazioni, agli angoli.
Possiamo provare a collidere mille volte con una superficie altrui, ma se arriviamo con l’angolo sbagliato tutta la nostra banda non raggiungerà il punto giusto. E a quel punto si sarà trattato solo di un spreco di forze, un tentativo inutile.
Se invece si possiede l’accortezza di capire, e quindi di decidere l’angolo d’incidenza, allora si può penetrare e colpire il cuore.
Negli ultimi tempi avevo avuto modo di affinare la mia tecnica e cominciavo a fare esercizio per sfruttare al meglio questa capacità.
Riuscivo a gestire bene le cose perché riconoscevo i differenti approcci da avere in funzione delle situazioni che mi si presentavano davanti.
Nei casi più fortunati riuscivo addirittura ad esercitare un sorta di potere, di malia, in modo da entrare nei mezzi altrui e colpire il cuore delle cose.
Se la situazione richiedeva che fossi comprensivo e dolce, d’un tratto mi trasformavo in un ragazzo ben educato, altruista e disposto ad aiutare gli altri, tutto moine ed empatia.
Se, al contrario, occorreva che fossi rude e dominante, ecco di colpo la mia trasformazione in un cattivo ragazzo di strada.
Come un nuovo Leonard Zelig. O come albero da riva, se preferite, che si piega per non rompersi mai.
La sera della festa ottenni i risultati di due applicazioni della mia tecnica. Opposti e sorprendenti, da alcuni punti di vista.
In quei giorni avevo iniziato a testare le mie capacità usando i miei metodi su due ragazze molto diverse fra loro, entrambe interessanti e in qualche modo uniche.
Cristina era all’apparenza una ragazza molto schiva e riservata, di quelle che servono anni di conoscenza per averle dalla propria parte.
Bellissima, i capelli castano scuro non troppo lunghi e gli occhi magici come possono esserlo solo quelli delle ragazze tristi.
Faceva effetto nel vederla e, di acchito, poteva tranquillamente sembrare il prototipo della ragazza difficile, dell’introversa, della figa di legno.
E in effetti doveva proprio esserlo, con gli altri.
Io li vedevo tutti quei ragazzi che le giravano intorno, storditi dal suo profumo, come dei cagnolini girano attorno al padrone che porta loro il cibo.
Con me invece era completamente diversa, un’altra persona.
Perdeva quell’aria di essere superiore e celeste e diventava di carne e sangue come tutti gli altri umanoidi.
Io riuscivo a penetrare nel suo mezzo, stordendola e in qualche modo mettendola in una posizione di evidente sottomissione.
Suscitavo l’invidia di tutti i conoscenti.
Cristina la dea, la Iside, la donna dei sogni.
Io l’avevo ai miei piedi e non dovevo nemmeno sforzarmi troppo per mantenere questa relazione in omeostasi.
Il trucco stava nell’aver azzeccato l’angolo con il quale si doveva collidere con la sua anima, con il suo io di ragazza eternamente triste per via di vecchie e profonde ferite.
Le inarrivabili sembra sempre che abbiano un passato oscuro che le tormenta.
Le facili invece lo hanno per davvero, il passato oscuro e pieno di problemi, solo che loro si sfogano con i rapporti interpersonali. Col sesso, con le droghe. È la loro via di fuga.
Cristina dunque era una bellissima altezzosa problematica e refrattaria ai rapporti, di quelle che con i loro occhi di velluto rubano le anime degli uomini sprovveduti.
Direi che rientrava bene nel tipo uno.
In tal caso serviva quindi avvicinarsi piano, far finta di non notarla e anzi, se si poteva, trattarla un po’ male, come se lei fosse una delle tante.
Senza darle mai l’impressione di essere interessato, giravo intorno ai problemi di Cristina come un avvoltoio gira intorno ad una carcassa marcia. Cominciai a cibarmi di lei appena per errore si espose al mio attacco. Che io sferrai, ovviamente, usando un angolo misurato con la dovuta perizia.
Era una ragazza estremamente intelligente, eppure si accorse di nulla, non ebbe nemmeno il sentore, non il più lontano presentimento del fatto che io stessi applicando un metodo scientifico e rigoroso per farla mia.
La conoscevo da due settimane quando m’invitò alla festa di laurea di alcuni suoi amici, due nuovi dottori ben vestiti e sorridenti, pronti a sfondare qualsiasi porta senza girarsi mai per vedere la propria ombra che li insegue. Beati loro, così leggeri e determinati da non vedere la miseria, da non accorgersi del nulla assoluto.
Alla festa incontrammo anche Anna, pronta a festeggiare con noi -non che a me fregasse un cazzo- il titolo conseguito dai novelli dottorini junior (è così che si chiamano ora?).
Lei l’avevo conosciuta la sera in cui vidi per la prima volta Cristina, in occasione di una cena a casa di amici comuni.
Fu esattamente quella sera che decisi di provare i miei “angoli” sulle due.
Se però con Cristina le cose erano facili e dalla curiosità di provare la mia capacità di impormi era nata anche una specie di relazione, con Anna non avevo avuto il medesimo successo.
Mi dava dei grossi problemi, del filo da torcere, come si suol dire.
Mi vedeva dentro, cazzo, ero traslucido per lei, come se tutti i miei modi di fare e le mie tecniche fossero inutili.
La cosa buffa, oltretutto, è che Anna non era un tipo difficile come lo era Cristina, piuttosto posso dire che sembrava una di quelle ragazze carine e disponibili, che danno confidenza a chiunque le conosca, senza distinzioni particolari. Anna era insomma il classico tipo facile da conquistare, magari di quelle con veri problemi nel loro passato ma che hanno molta più forza di quanto si crede, per cui i miei tentativi di scardinare il suo mondo non funzionavano affatto.
Avevo provato ad accedere alla sua anima con tutti gli angoli che conoscevo, avevo usato tutte le prospettive, tutte.
Niente da fare, per me era una muraglia impossibile da penetrare, una fortezza.
È un paradosso, ma per gli altri era probabilmente facile da conquistare, al contrario di Cristina, eppure io non riuscivo a trovare il modo.
Non che volessi conquistarla per averla o per portarla a letto, dato che avevo già Cristina (la quale mi piaceva molto di più), solo che ero curioso di sperimentare nuovamente i miei metodi.
Certo, c’era anche una buona dose di ego e di desiderio di potere dietro tutto, lo sapevo, ma era in gran parte curiosità.
Per farla breve, alla festa tutti mi guardavano con occhi invidiosi perché ero il nuovo compagno della stupenda e irraggiungibile Cristina, eppure io non riuscivo a fare presa sulla più modesta e accessibile Anna.
Un mistero, per me.
Mi sarei aspettato di faticare moltissimo con la prima, invece mi ritrovavo nella situazione opposta a quella dettata dalle apparenze.
La teoria e la pratica non sempre coincidono.
Arrivammo al locale abbastanza presto, camminando per la strada che passa sotto la torre e che porta al locale, esattamente dietro la Triennale.
Avevamo sui visi l’espressione di entusiasmo misto ad imbarazzo tipica delle nuove coppie che si trovano a partecipare ad eventi che li espongono verso tutti gli altri conoscenti.
Da una parte ci si sente eccitati di mostrare il partner ai propri amici, dall’altra si percepisce di essere come sotto osservazione, al centro dell’attenzione e dei pettegolezzi, per cui anche i gesti più normali diventano come un po’ meccanici ed impacciati.
Io mi fingevo felice di conoscere quella mandria di zucche vuote che erano alla festa e dentro di me pensavo solo ad andare verso il bancone.
Certo ero felice di stare con Cristina, probabilmente non avrei dovuto voler nulla di meglio dalla vita, ne ero al corrente ma, come al solito, dentro di me si faceva già vivo il sentimento nero di oppressione che mi condannava a vivere come un emarginato da ormai qualche tempo.
Era un serpente concettuale che si annidava nelle mie viscere e che con le sue spire mi soffocava dall’interno. Rendeva tutti i miei tentativi vani.
La ragazza perfetta, la scrittura che cominciava a fluire, averla fatta franca con i due omicidi.
Dovevo essere al settimo cielo, invece mi sentivo soffocare.
Stavo di nuovo sentendo esplodere il mio Passeggero, ed io mi accorgevo che lasciarlo libero era l’unico modo per poter continuare a sopportare me stesso ed il mondo intero.
Gli uomini non si sopportano, l’umanità intera non si sopporta, ve lo dico io. Per questo ci ammazziamo, ci spariamo, lanciamo missili o ci imbottiamo di esplosivo per farci saltare in posti affollati.
È per lo stesso motivo che chi ci ha concepito ha pensato di obbligarci al sonno.
Dobbiamo dormire, perché non ce la faremmo a sopportarci per 24 ore di fila. Ci odieremmo, arriveremmo ad ucciderci.
Dobbiamo dormire per un terzo della nostra esistenza in modo da poter convivere col fottuto noi stesso.
Io questo lo sapevo e non potevo di certo reprimere tutta questa schifezza spingendola di nuovo in qualche parte remota della mia mente, quindi, una volta arrivato al locale, cominciai a pensare come cercare di spegnere le scintille di oblio che mi affollavano i pensieri.
Ovviamente, appena riuscii a liberarmi dei convenevoli legati alle nuove e non interessanti conoscenze, mi fiondai al bancone.
L’alcool mi teneva buono, affievoliva in me il desiderio di apocalisse nucleare che provavo in certi momenti.
Lasciai dunque Cristina ad un gruppo di quattro o cinque spasimanti dalle cappelle sempre bagnate e mi sedetti sullo sgabello del bancone, a quell’ora per fortuna non ancora affollato.
Li udivo provarci con la mia donna, ma non m’importava. Avevo io le chiavi di casa, i ragazzini sarebbero rimasti fuori, questa sera come le altre.
Mentre sorridevo nel sentire i loro ridicoli modi di bullarsi per mettersi in competizione l’un l’altro e dimostrarsi i galli più cazzuti del pollaio, decisi di ordinare da bere.
Una vodka doppia era quello che ci voleva, per sistemare almeno temporaneamente il mio demone.
Assaporando con la punta della lingua il liquido all’interno del bicchiere potevo accorgermi del cambiamento organolettico che ha luogo appena il distillato viene a contatto con le papille gustative; il freddo dovuto alla bassa temperatura della bevanda stava lasciando posto ai 37 gradi della mia carne e in questo passaggio sembrava quasi di cogliere la fase acquosa in separazione dall’alcool che, evaporando, lasciava sulla superficie esterna della mia bocca una sensazione di fresco secco.
Mentre mi godevo quell’attimo e provavo stupore per come ogni volta in quel preciso istante si faceva vivo il sapore del grano sul mio palato, qualcosa distolse i miei pensieri bruscamente.
Era la voce vivida e gioiosa di Anna, che mi salutava con un “eeehhhiiiiiii” lungo un’eternità.
Si mise a sedere in fianco a me e ordinò un daiquiri.
Il suo sguardo era come un’arma carica puntata al cuore, non avevo modo di sottrarmi a quella minaccia e mi sentivo terribilmente in difficoltà, in ridicola difficoltà.
Cominciammo a parlare di argomenti perlopiù futili, ed io non riuscivo a concentrarmi granché sulla conversazione, dal momento che non ero in grado di tenere sotto controllo i suoi occhi indagatori.
Ma non erano solo gli occhi, no, era tutta Anna che si sottraeva alle mie tecniche e rispondeva agli attacchi con nuovi e più potenti metodi di sottomissione. Faceva quel giochetto con la bocca, ovvero schiudeva leggermente le labbra, spostando con grazia la mandibola verso l’arcata fissa della mascella, come se stesse stringendo i denti senza però farli toccare tra loro. Come la smorfia che si fa quando si sente un leggero dolore, sia una puntura d’insetto o una piccola bruciatura.
Lo faceva anche quando rideva, lasciando in questo caso più scoperti tutti i suoi perfetti denti bianchi che risaltavano alla luce scintillando di saliva.
Questi piccoli movimenti dei muscoli del suo viso erano per me al tempo stesso deliziosi e orribilmente fastidiosi, dal momento che non solo mi distraevano dall’applicazione meticolosa delle mie tecniche, ma riuscivano anche a catturarmi e a farmi entrare nel suo mondo, nel suo gioco.
Finivo cioè col farle delle domande, con l’interessarmi a lei e magari addirittura con l’espormi pericolosamente in prima persona.
Era come le lei sapesse già tutto di me, in che modo non saprei dirlo, forse tramite divinazione che seguiva ai rituali meticolosi del controllo dell’altro tramite mimica facciale e uso dell’apparato boccale.
In ogni caso era pericolosa per me, perché sarei potuto arrivare al punto di raccontarle tutto, i miei disturbi, i miei piaceri, il mio Passeggero.
Per fortuna, le feste sono ricche di personaggi molesti che saltano fuori all’improvviso pronti per troncare i dialoghi -quasi- seri che prendono vita davanti ai banconi dei bar.
Grazie a qualche amico di Anna, infatti, riuscii ad evitare di sondare il mio io ancora più e a trattenermi dal per vomitarlo poi davanti alla mia interlocutrice.
Qualche istante frenetico di abbracci e baci, battute volgari e scontate, sorrisi e strette di mano; questo bastò per rompere l’incantesimo e per salvarmi dall’errore.
Poi piombarono su di noi i festeggiati, lui in completo e lei con un vestito da almeno 1000 euro, ci fu baldoria, io mi ricongiunsi alla dolce Cristina e allontanai da me i pensieri malvagi provando ad essere, non dico una persona normale, ma almeno non un disadattato pazzo omicida.
La serata insomma stava scivolando via tra sigarette, drink e pisciate.
Verso le 2 però, nel pieno della notte e dei festeggiamenti, Cristina si allontanò per parlare con degli amici e io fui di nuovo intrappolato da Anna.
Arrivati al “secondo me non pensi tutte le cose che dici”, le chiesi se potevamo uscire un attimo da quella bolgia e andare a fumare una sigaretta in un luogo dove avrei potuto evitare di dover leggere le labbra per capire le sue parole (e in questo caso leggere le labbra era pericoloso, essendo la bocca la sua arma migliore).
Nello spazio che ci separava dal luogo dove la stavo portando a sua insaputa, c’erano almeno 200 persone, due file di macchine, un semaforo e un camioncino fermo sul marciapiede a lavorare come chiosco panini e bibite.
Dovevo concentrarmi nel procedere in maniera da non attirare l’attenzione della gente; ormai ero diventato più accorto nel preambolo e nei preparativi, si sa mai che qualche piccolo dettaglio possa rivelarsi in futuro un grosso errore.
Camminavo quindi con la testa bassa, cercando di tenermi in mezzo alla gente in modo da confondere la mia sagoma e quella della mia vittima con le altre che seguivano la piccola via oppure che si apprestavano ad attraversare al semaforo.
Una volta giunti dall’altro lato della strada, cominciammo a passeggiare con più calma, parlando di tutte le cose delle quali non si dovrebbe parlare mai, dalla propria infanzia fino ai demoni più recenti.
Io ero ormai completamente trasparente e le avrei anche confessato che mi stavo portando dentro un brutale assassino, non fosse che l’avrei spaventata e non avrebbe quindi mai accettato di venire a vedere la centrale di distribuzione dell’acqua che si trovava proprio in fronte al locale.
Sembrava anche divertita quando cambiando discorso le spiegai a cosa servivano quelle cisterne e perché era necessario avere dei filtri a carboni.
Comunque, per me era sufficiente distrarla e passeggiare attorno alla struttura fino a raggiungere la zona posteriore che era completamente nascosta e all’ombra di qualsiasi luce artificiale, ma fu lei ad avere l’idea più brillante: “scavalchiamo”.
E così fummo dentro, nel buio, senza che occhio potesse vederci (l’unico occhio del quale mi preoccupavo era quello della telecamera che, per mia fortuna, era orientato verso una sola zona della stazione).
Anna camminava divertita davanti a me, mentre io cercavo di capire come fosse possibile che i miei comportamenti non l’avessero insospettita.
Quando arrivammo nella zona più buia, quella che ospita le cisterne con i filtri, sentii il tremore, quello che ormai mi ero abituato a riconoscere.
Mani che pulsano e sudano, vene sulle tempie che battono, aritmia, la gola che si gonfia e non vuole far passare l’aria.
La figura nera di Anna mi precedeva nel buio lasciando una scia di profumo ed io ero pronto per cedere il controllo al mio Passeggero.
L’arma che nell’impeto decisi di usare era la cintura che indossavo, una lingua di nylon spessa e resistente.
Sentivo gli occhi schizzarmi fuori dalle cavità, tanto il cuore pompava con violenza il sangue, ma le mie mani erano ferme e decise.
Tolsi la cintura e rapidamente la avvolsi attorno alle mani, rivoltandola un paio di volte, come si fa con una corda quando la si deve tirare con maggior efficacia.
Senza quasi rendermene conto, mi avvicinai con rapidità alla mia vittima facendo passare velocemente la fettuccia oltre la chioma corvina che le copriva la testa e, non appena ebbi superato il viso, tirai verso di me la cintura con tutta la violenza che avevo dentro.
A quel punto incrociai le braccia, per moltiplicare l’effetto della mia forza.
Il risultato fu spaventoso, terrificante.
Il suo collo fece un rumore fortissimo, come una pietra pesante che viene lasciata cadere dal tetto di un palazzo o addirittura come due grosse automobili che collidono in un incidente stradale.
Mi spaventai nel sentire quel rumore, tanto che allentai di colpo la morsa e lasciai cadere il corpo senza turgore di Anna.
L’avevo uccisa con un solo colpo, un gioco da ragazzi.
Prendere una vita ad una ragazza ignara delle intenzioni del proprio assassino è questione di attimi, se poi si possiedono forza fisica e tempismo, diventa davvero banale.
Così tanta fatica per nascere, restare in vita, combattere con questa merda di entropia e poi arriva un quasi sconosciuto e ti uccide con una cintura.
Davvero mi chiedo, nel caso dovessi avere mai dei figli, se avrò il coraggio di buttare altre anime sul fuoco di questo mondo.
Probabilmente no, non potrei mai fare un torto così grosso al sangue del mio sangue.
Nessuno si accorse della mia assenza (è questo il bello delle feste), solo Cristina mi si avvicinò per chiedere dove fossi andato a finire.
Risposi “a pisciare”, facilissimo metterci più del previsto, visto il delirio di quei cessi che, dato che non erano abbastanza frequentati, qualche stilista di architetture interne aveva deciso di fare per tre quarti promiscui.
Comunque, passai ancora un’altra ora a bere vodka e a fumare sigarette nell’attesa che il casino scoppiasse.
Ero seduto a parlare con Cristina su di un divano nel mezzo del giardino del locale e, nonostante il caldo terribile, riuscivo a non sudare e a provare una sensazione fantastica, di liberazione, quasi di gioia.
Mi sentivo fresco e rilassato, come dopo un orgasmo.
Poi, il casino scoppiò.
Nessuno riusciva a trovare Anna, il suo cellulare suonava ma le chiamate non avevano risposta.
Io solo ero al corrente, io solo sapevo che il suo telefono era a duecento metri da noi; vibrava, s’illuminava e suonava nel buio, come un disperso che chiama aiuto dal fondo di una valle sconfinata e solitaria.
Passarono i minuti e poi i minuti divennero mezz’ore, la gente cominciava ad abbandonare la discoteca e il giardino di conseguenza si svuotava delle orde festanti che lo occupavano.
Gli unici a non lasciare il locale erano gli amici intimi di Anna, quelli con i quali era venuta alla festa, quelli con i quali se ne sarebbe dovuta andare.
Anche Cristina era preoccupata, continuava a ripetere che Anna non era la tipa da abbandonare il posto senza avvisare i suoi amici.
Negli occhi della mia compagna potevo leggere con chiarezza il presagio che si faceva via via sempre più reale e concreto.
Fu una cosa molto triste.
È sempre brutto vedere qualcuno che soffre pensando ad una persona che in un modo o nell’altro scompare.
Quanto a me, io sono una bestia, un egoista del cazzo, un assassino, uno stupratore, uno strangolatore.
Io non ho un cuore, non ho sentimenti, ho solo merda e viscere tiepide.
Lasciammo anche noi la discoteca quando era ormai mattina, per dirigerci verso casa di Cristina, la quale era sempre più inquietata per sparizione della sua amica.
Arrivati a casa ci spogliammo in maniera confusa, seminando indumenti per le stanze e arrivando quasi carponi al letto. Ci sdraiammo e aspettammo abbracciati il sonno.
Cristina era bella da togliere il fiato e il mio cuore bastardo correva fortissimo per ricordarmi che le mie interiora avevano il dominio sulla mia persona esterna.
Cercai di non pensarci e chiusi gli occhi.
Nel sonno, sognai di essere al centro di un antico anfiteatro romano, durante una notte ventosa ma tiepida. Mi sentivo terribilmente impaurito e giravo vorticosamente alla ricerca di qualcosa, mentre nel cielo una tonda luna di ghiaccio rubava la luce al sole per proiettarla tetramente su tutta la costruzione.
D’improvviso, una visione mi gelò il sangue nelle vene: sotto una volta dell’anfiteatro, in penombra, una figura umana con una tunica nera dal grosso cappuccio agitava qualcosa tenendo le braccia all’altezza del viso. La vista di quella persona mi pietrificò, provocando in me una sensazione di orrore che mai nella vita avevo provato. Fu come guardare la morte.
Lentamente questa persona si spostò dalla lingua d’ombra che la pietra dell’arcata lanciava sul suolo e finalmente riuscii a vedere cosa teneva fra le mani.
Era un neonato.
Un piccolissimo bambino avvolto in una coperta marrone scuro.
Il bambino non emetteva gemiti e la losca figura non mi parlava; gli unici suoni che riuscivo a percepire erano quello del vento e quello che, più in sottofondo, sembrava ricordare il motore di una grossa nave o, più semplicemente, quello di una centrale di distribuzione dell’acqua.
Poi la figura spaventosa con la tunica nera alzò di scatto il bambino sollevando un braccio, tenendolo per una caviglia e lasciandolo penzolare a testa in giù.
Il piccolo cominciò a strillare in maniera assordante ed io percepii il suo timore, la sua sensazione ancestrale dell’essere in pericolo.
Avrei voluto intervenire, fare qualcosa, strapparlo dalle mani di quella “cosa”, ma non riuscivo a muovermi dalla paura.
Non si muoveva nemmeno un muscolo, come in una paralisi ipnagogica.
D’un tratto la sagoma scura aprì la mano lasciando precipitare il bambino verso il suolo.
Io urlai fortissimo, svegliandomi completamente sudato al fianco di Cristina, la quale con una mano sul mio petto cercava di tranquillizzarmi.
Poi mi riaddormentai, in posizione fetale, schiacciandomi contro il corpo caldo della donna che stava al mio fianco.
Al risveglio avvertii la solita sensazione di nausea e, dopo aver vomitato svariate volte, mi resi conto di un particolare: quel suono sordo e continuo non cessava di rimbombare nelle mie orecchie.
Col passare delle ore si affievolì, ma da quel giorno i disturbi uditivi mi avrebbero perseguitato, causandomi forti mal di testa.
Cominciavo quindi a capire.
Io mi liberavo dell’insofferenza alla vita rigurgitando il mio Passeggero, il quale si prendeva qualcosa dal mondo come pegno per la mia stabilità, ma poi, il mondo, con una specie di contrappasso prendeva qualcosa a me.
Alterandomi il campo visivo, scheggiandomi un dente, lasciando la scia di un rumore lontano dentro la mia testa.
venerdì 10 luglio 2009
Notre vie est un voyage
Dans l’hiver et dans la nuit
Nous cherchons notre passage
Dans le ciel où rien ne luit
Cantavano così le Guardie Svizzere passando sul fiume Beresina.
Ignare della loro sorte, intonavano un triste canto che si rivelò un presagio di morte.
Forse tutti noi siamo all'oscuro, non sappiamo, non possiamo prevedere.
E decifrare i presagi è impresa davvero ardua.
Per questo voglio che tutti voi sappiate, perchè tutto questo vi appaia molto più chiaro di un presagio, di un lampo, di un'intuizione.
Voglio che si sappia.
Il seguente scritto è il secondo racconto delle cronache della follia e descrive il secondo incontro di Romeo con il suo Passeggero Oscuro.
LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #2
La seconda volta avvenne in maniera diversa, fu come un flusso cosciente, controllato, consapevole, caldo, quasi piacevole.
Il primo omicidio aveva rappresentato la rottura delle pareti che arginavano le acque, proprio come succede alle dighe, quando la pressione del fluido vince la coesione del calcestruzzo.
Le acque si erano riversate sul fondovalle, seguendo il pendio, controllate solo dall’accelerazione gravitazionale. Il bacino era stato svuotato, andando a creare una nuova realtà, stavolta dinamica e continua nel tempo.
L’evento improvviso e funesto lasciava posto allo scorrere infinito delle acque, non di certo ancora calme, ma consapevoli della loro libertà di scorrimento e prive delle costrizioni che annullavano tutte le sfumature dei moti laminari e turbolenti.
Clara la incontrai in modo casuale, in un pomeriggio assolato e afoso di metà giugno.
Non saprei spiegare con precisione il motivo per il quale mi ero recato ai giardini di Porta Venezia, forse avevo intenzione di mescolarmi un po’ alla gente per avere nuovo materiale su cui scrivere, oppure avevo semplicemente voglia di sentirmi un essere umano, uno di quelli che prova godimento nel passeggiare sotto le foglie delle querce del parco.
Camminavo inspirando l’aria lentamente, cercando di cogliere le differenze di temperatura fra le zone assolate e quelle d’ombra, mentre, con la coda dell’occhio, vidi un manifesto che colpì la mia attenzione e annullò per un attimo il lampo giallo che continuava ad apparire ogni volta che il mio bulbo oculare sinistro cercava di vedere oltre il normale raggio d’azione.
Mi avvicinai alla struttura di metallo che ospitava il poster e notai con piacere che l’affissione riguardava una manifestazione di musica dal vivo, la quale era piuttosto interessante per almeno un paio di ragioni: era gratuita e le band elencate erano tutte più o meno tutte degne di nota.
Cosa rara, per altro, in questa città che costringe il cittadino ad uniformarsi all’iconografia del dandy fighetto.
Concerti interessanti, che siano di musica leggera, jazz o quant’altro, erano difficili da trovare a Milano, se si escludono due o tre locali che con coraggio spingevano un certo tipo di cultura.
La piega tremendamente asettica della città era uno scudo spaziale contro la cultura giovane, quella reale, non quella fatta solo di discoteche e Lacoste.
Tutti, a partire dai cittadini fino ad arrivare alla giunta comunale, avevano contribuito a creare una città fantasma, costruita sull’apparente benessere, sul machismo, sull’immagine e, soprattutto, sul tornaconto economico.
Di sostanza, c’era ben poco. Era tutto fumo negli occhi.
I divertimenti giovanili erano prestabiliti, prestampati, come ordinati dalla città stessa.
La sera c’era realmente poco da fare, esistevano la via dei locali notturni e la via dell’aperitivo. Il massimo della goduria era eseguire entrambe le soluzioni, una di fila all’altra.
I locali rispecchiavano chiaramente l’essenza della città, rappresentando al meglio il concetto del vuoto che appare magnifico e ricco di sostanza.
Perfino il pane che si consumava in città sembrava sottostare alla stessa attitudine, aveva infatti una bellissima scorza croccante ma, all’interno, c’era nient’altro che aria.
Le discoteche erano quindi posti fasulli, di cartapesta, dove per ammassarsi a morire di caldo bisognava pagare uno sproposito ed essere vestiti come ai matrimoni.
All’interno dei club si poteva intravedere, se ancora non si avevano gli occhi intrappolati nelle cateratte che la città andava posando sulle pupille dei propri cittadini-zombie, tutta la verità che c’era dietro all’apparire: giovani donne, uomini, ragazzini e persone più anziane, tutte con il “vestito della domenica” (come si usava fare 50 anni fa) a far finta di essere meglio di quello che si è in realtà.
Tutti felici di sembrare dei piccoli Briatore, dei Berlusconi in erba, con il loro cocktail -finto- raffinato in mano, il loro modo di fare spavaldo. Era davvero lo specchio della cultura cittadina, nel quale vi erano riflessi i principi fondamentali dell’etica milanese:
_ Avere sempre, per quanto possibile, una bella presenza, un aspetto curato.
_ Mostrare di essere benestanti (anche se non lo si è) con i modi di fare e con l’abbigliamento. Meglio una camicia firmata che una dozzina di magliette normali.
_ Sorridere sempre, per dare l’idea di successo, di felicità, di “bella vita”.
_ Scegliere con cura le persone che vi stanno vicino. Sarebbe meglio se fossero anche loro dei vincenti, ma mai migliori di voi, altrimenti rischiereste di passare inosservati e di non spiccare nel gruppo.
_ Se avete una Porsche, per Dio, appendetevi le chiavi al collo!
_ Sniffate cocaina, i potenti lo fanno, quindi sarete potenti anche voi.
_ Non parlate mai di politica, è tremendamente out, al massimo elogiate qualche potente che ha fatto tanti soldi, in modo da rendere ulteriormente chiaro qual è il vostro stile di vita. Voi siete dalla parte di chi vince, ricordatevelo.
_ Il prezzo delle cose è direttamente proporzionale alla loro validità.
_ La musica bella è quella che si ascolta nei posti belli. Al contrario, in un posto senza selezione all’ingresso non ci sarà mai musica decente. D’altronde potrebbe essere un posto da barboni.
Sembra esagerata questa lista, una fiera delle banalità, una presa in giro, una caricatura grottesca dei new-yuppies.
Purtroppo invece l’elenco riporta fedelmente le basi della cultura che in città andava per la maggiore, senza esagerazioni o forzature di alcun tipo (nemmeno per il punto 5).
È pleonastico precisare che la città non era fatta solo d’immagine e di apparenza, c’era chiaramente l’altra faccia della medaglia, una cultura sotterranea che strisciava, seppur con fatica, attraverso le vene di Milano e dei milanesi.
C’erano posti dove ancora i giovani potevano andare per aggregarsi, ascoltar musica, fare arte o semplicemente rilassarsi senza dover dimostrare di essere i più fichi o i più ricchi del quartiere.
Il locale che ospitava la manifestazione era uno di questi.
In quel posto, situato sulle rive artificiali del lago cittadino, ci avevo trascorso molte serate, spesso cercando di uccidere i miei soliti demoni con l’alcol.
Cercavo di avvelenarli, per farli star buoni un po’, e alle volte ci riuscivo.
Così ci andavo sempre volentieri, la birra era a buon prezzo e le band che suonavano erano sempre di alto livello.
Ci avevo sentito alcuni dei miei gruppi preferiti e sicuramente tutta la scena post-hardcore del nord Italia era passata dal suo palco.
Ero quindi incuriosito dalla lista di nomi riportati sul cartellone, più della metà li conoscevo, erano band che apprezzavo e che non mi sarebbe dispiaciuto vedere assieme in un’unica serata.
Il festival si svolgeva la sera stessa e, proprio mentre pensavo che ci sarei andato con piacere, sentii una voce femminile e ansimante alle mie spalle: “Uh, figo, suonano anche gli Zu!”.
Girai il capo rapidamente e vidi la ragazza che era dietro di me, stava sudando ed era vestita in maniera sportiva. Evidentemente aveva appena smesso di correre, le si vedeva ancora il pallore dello sforzo spalmato sul viso.
Aveva una canottiera di cotone bianco dalla quale risaltavano le spalle abbronzate, mentre più in basso spuntavano dei piccoli seni quasi appuntiti.
Era molto carina, con i capelli castano chiaro legati a formare una coda di cavallo che andava ad infrangersi sull’attaccatura del collo.
Sorrideva, sembrava una persona gioviale.
Le dissi che anche a me piacevano gli Zu e aggiunsi che sarei sicuramente andato a sentirli quella sera.
Lei rispose che non poteva venire, dato che la sua coinquilina, con la quale si sarebbe dovuta recare al locale, era partita e ora non aveva più il passaggio in macchina. Mentre pronunciava le parole “passaggio” e “macchina” fece una smorfietta, come quelle che spesso fanno le ragazze carine, quando sbattono le ciglia e fingono un timido dispiacere.
C’era qualcosa di esplicitamente sessuale in quella frase, e capii subito che in fondo era una richiesta, anche abbastanza sfrontata.
Le dissi che l’avrei passata a prendere io, senza problemi, tanto ero solo e non avevo certo problemi di posto in auto.
“Veramente?!? Come sei gentile!”, rispose tutta eccitata, passandosi la mano sui pantaloncini prima di allungarla verso di me.
“Mi chiamo Clara”.
“Io sono Romeo” risposi.
Quella sera, senza nemmeno rendermene conto, alle 21 ero sotto casa di Clara.
La vidi arrivare dal lato destro della mia auto, aveva una gonna lunga di colore scuro, una grossa borsa a tracolla e portava ancora i capelli legati in alto.
Cazzo, dissi dentro di me, è proprio carina.
Quando salì in macchina Clara mi salutò baciandomi due volte le guance e, se devo essere sincero, mi imbarazzò un poco quel contatto imprevisto.
Mentre guidavo verso la zona est della città, lei cominciò a farmi un sacco di domande.
Dove abiti, cosa fai nella vita, sei di Milano, vivi da solo, cos’hai studiato e tutte quelle menate.
Io risposi con una serie infinita di balle e, proprio in quel preciso istante, realizzai cosa stava accadendo.
Il suo profumo, doveva essere sandalo o qualcosa del genere, mi entrava nelle narici e mi pizzicava le mucose, facendomi innervosire ad ogni respiro.
Lei intanto parlava in continuazione, come una macchinetta.
Diceva anche delle cose intelligenti, non era proprio una stupidotta, ma il mio pensiero ormai era irrimediabilmente fisso a quella sera di primavera, quando la bestia che ho dentro divorò la mia umanità per uscire dalla gabbia ed avventarsi sulla sua prima preda.
Non riuscivo a pensare ad altro.
Rivedevo di continuo le immagini di quel corpo nudo e abusato che giaceva nel letto di una stanzetta del condominio studentesco della Bocconi.
La belva quella volta mi prese alla sprovvista, di contropiede, perché non mi aspettavo nulla del genere e perché non sapevo di avere il male dentro.
Ma questa volta giocavo a carte scoperte con il Passeggero Oscuro.
Lo sentivo muoversi dentro di me, mentre mi riscaldava il sangue attraverso le vene, il cuore, le arterie, i capillari.
La sensazione era di calma, forse apparente, ma sentivo di avere tutto sotto controllo.
Presi una strada secondaria, andandomi ad infilare in un parcheggio anonimo nei dintorni dell’idroscalo.
Il cielo stava ormai diventando nero e le piante che circondavano il piccolo spiazzo mi schermavano dai raggi lunari, aiutando l’oscurità ad abbracciarmi.
Quando spensi il motore sentii la prima vampata di calore salirmi dal profondo delle viscere fino alla punta dei capelli.
Il sudore cominciava a colare dalla fronte e dalle basette, andando a raccogliersi in piccole goccioline che ancora avevano dimensioni adatte per sopravvivere alla gravità rimanendo attaccate al mio viso.
Ma io le sentivo crescere e formare dei menischi flosci per effetto del loro peso acquoso. Stavano per cadere, per andare a schiantarsi.
Tutto intorno a me stava per cedere ad una forza più grande, le gocce di sudore non erano le sole ad essere governate da qualcosa di superiore.
“Siamo già arrivati?” mi chiese la ragazza con aria ingenua e inconsapevole.
Io le risposi che avevo parcheggiato proprio dietro il locale per evitare la coda del parcheggio principale.
Lei però in quel momento capì qualcosa, probabilmente riuscì a vedere il lampo del demone nei miei occhi, oppure doveva essere stata la mia voce tremante a tradire il mio stato di euforica mostruosità.
Vidi sul suo volto la paura.
E quell’espressione accese in me fortissimo e improvviso il desiderio di farle del male.
Volevo picchiarla e farla soffrire, volevo ucciderla.
La sete di morte si era manifestata in maniera chiara, senza indugi e stavolta più piacevole rispetto alla prima esperienza.
Come per ogni cosa, la prima volta è sempre troppo pervasa di eccitazione adrenalinica per godersela appieno.
Con il tempo ci si abitua, l’euforia c’è sempre, ma si riesce a gustarsi meglio il momento.
Io mi stavo godendo il momento.
Mi nutrivo della sua paura e sentivo un piacere irrefrenabile nel sapere che fra qualche piccola frazione di secondo lei sarebbe morta, avvolta nella mia stretta o sotto i colpi delle mie nocche dure e ossute.
Senza dire una parola, la ragazza ruotò il suo corpo magro facendolo scivolare sul sedile mentre con una mano tentava di raggiungere la maniglia della porta.
Mi diede le spalle.
Io fui rapidissimo: le passasi il braccio destro attorno al collo, prendendola da dietro.
Poi, con la mano sinistra, mi aiutai nel serrare quella tenaglia di ossa e carne.
Dovevo aver stretto molto forte, perché sentivo scricchiolare tutte le sue ossa all’interno della mia morsa.
I suoi piedi si muovevano senza sosta e le sue ginocchia sbattevano epilettiche contro ogni parte dell’automobile, fino a che la ragazza riuscì ad inarcarsi facendo leva puntando i talloni sul cruscotto.
A quel punto persi completamente il controllo.
Ero eccitato, sentivo di avere un’erezione e sapevo che ero solo all’inizio.
Godevo, cazzo, perché avevo il controllo completo. Lei non poteva sfuggirmi e quel gesto di ribellione alimentò maggiormente il diavolo che mi portavo dentro.
Avvicinai di colpo la mia bocca alla sua faccia e con un morso le strappai tutto lo zigomo sinistro.
Avevo serrato i denti con una brutalità tale da scheggiarmeli nell’urto fra le due arcate, perciò ero riuscito a lacerare tutto il tessuto che avevo addentato.
All’interno della mia bocca sentivo la sua carne e il suo grasso sottocutaneo mischiarsi con le mie mucose.
Non uscì molto sangue, ma il grasso che sgorgava era ripugnante, giallo e denso. Senza sosta continuava ad affiorare dalla lacerazione, producendo un effetto davvero diverso dalle ferite che siamo abituati a vedere quando ci tagliamo senza andare troppo in profondità.
Era orribile.
Lei aveva urlato in maniera disperata, più che per il dolore per la consapevolezza della fine.
Stava realizzando che il suo viaggio era al termine, che la sua vita di esile e giovane ragazza si stava spegnendo per sempre, all’interno di un’automobile dannata, fra le spire di una belva umana.
Era un grido triste, disilluso, come se avesse intravisto per un attimo tutto quello che era davvero il senso della vita: un vuoto infinito.
Mi fece pena, provai dolore per lei, povera ragazza.
Allentai di colpo la presa, sputando pezzi della sua faccia sul sedile.
Attraverso la fessura delimitata dalle labbra sottili e ben disegnate non vi era più parvenza di uno scambio di gas.
Era morta.
La scaricai senza nemmeno scendere, mi limitai ad aprire la porta e a spingere il suo corpo morto sull’asfalto caldo del parcheggio.
In quell’istante entrarono in macchina, di colpo, una decina di zanzare.
Mentre guidavo per uscire dallo spiazzo, mi misi a piangere.
Piansi perché non potevo sopportare la consapevolezza di aver spezzato un’altra vita. Avevo messo fine al percorso di una bella e intelligente ragazza, l’avevo lasciata senza respiro nel mezzo di un parcheggio deserto, con la faccia dilaniata e il corpo ancora caldo, a far da cibo per gli insetti estivi.
Tornai a casa, ancora piangendo.
Ne avevo uccisa un’altra, ero un assassino seriale, un pazzo malato e pericoloso.
Cercai dell’alcol, trovai una bottiglia di brandy, la bevvi tutta nel tentativo di disinfettarmi dal mostro che viveva giù nelle viscere.
Vomitai ripetutamente, continuando a piangere al pensiero di quel corpo atletico riverso come un manichino scaricato per caso in mezzo al nulla.
Poi mi addormentai.
Durante il sonno, sognai di essere su di un vascello in mezzo alla tempesta.
Le onde altissime sovrastavano la prua e invadevano il ponte, prolungando la loro lingua umida fino ai miei piedi.
L’acqua era nera come la morte e risaltava al contrasto con la schiuma bianca che con i suoi rivoli cercava di trascinarmi nell’abisso.
Io mi arrampicavo sempre più in alto, sugli alberi, fino a toccare le vele.
Ma l’abisso si gonfiava in mille enormi pance, pur di venirmi a prendere.
Ero terrorizzato, immobilizzato dalla paura di quell’acqua malvagia che si avvicinava mangiandosi un pezzo di vascello ad ogni bordata.
Alla fine arrivò l’onda più nera e orribile che avessi mai visto e inghiottì tutto quanto.
Il mio urlo muto si bloccò nella laringe, ma in qualche modo servì per riuscire a destarmi dal sonno.
Era mattino, andai al bagno e mi vidi nello specchio.
Avevo l’incisivo superiore destro scheggiato nella sua estremità interna.
Ecco un altro segno tangibile, fisico, reale e corporeo.
Dopo la prima volta mi rimase un lampo nell’occhio, ora avevo anche il dente a ricordarmi chi avevo dentro di me.
La belva.
Il demone.
L’assassino.
Il Passeggero Oscuro.
Dans l’hiver et dans la nuit
Nous cherchons notre passage
Dans le ciel où rien ne luit
Cantavano così le Guardie Svizzere passando sul fiume Beresina.
Ignare della loro sorte, intonavano un triste canto che si rivelò un presagio di morte.
Forse tutti noi siamo all'oscuro, non sappiamo, non possiamo prevedere.
E decifrare i presagi è impresa davvero ardua.
Per questo voglio che tutti voi sappiate, perchè tutto questo vi appaia molto più chiaro di un presagio, di un lampo, di un'intuizione.
Voglio che si sappia.
Il seguente scritto è il secondo racconto delle cronache della follia e descrive il secondo incontro di Romeo con il suo Passeggero Oscuro.
LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #2
La seconda volta avvenne in maniera diversa, fu come un flusso cosciente, controllato, consapevole, caldo, quasi piacevole.
Il primo omicidio aveva rappresentato la rottura delle pareti che arginavano le acque, proprio come succede alle dighe, quando la pressione del fluido vince la coesione del calcestruzzo.
Le acque si erano riversate sul fondovalle, seguendo il pendio, controllate solo dall’accelerazione gravitazionale. Il bacino era stato svuotato, andando a creare una nuova realtà, stavolta dinamica e continua nel tempo.
L’evento improvviso e funesto lasciava posto allo scorrere infinito delle acque, non di certo ancora calme, ma consapevoli della loro libertà di scorrimento e prive delle costrizioni che annullavano tutte le sfumature dei moti laminari e turbolenti.
Clara la incontrai in modo casuale, in un pomeriggio assolato e afoso di metà giugno.
Non saprei spiegare con precisione il motivo per il quale mi ero recato ai giardini di Porta Venezia, forse avevo intenzione di mescolarmi un po’ alla gente per avere nuovo materiale su cui scrivere, oppure avevo semplicemente voglia di sentirmi un essere umano, uno di quelli che prova godimento nel passeggiare sotto le foglie delle querce del parco.
Camminavo inspirando l’aria lentamente, cercando di cogliere le differenze di temperatura fra le zone assolate e quelle d’ombra, mentre, con la coda dell’occhio, vidi un manifesto che colpì la mia attenzione e annullò per un attimo il lampo giallo che continuava ad apparire ogni volta che il mio bulbo oculare sinistro cercava di vedere oltre il normale raggio d’azione.
Mi avvicinai alla struttura di metallo che ospitava il poster e notai con piacere che l’affissione riguardava una manifestazione di musica dal vivo, la quale era piuttosto interessante per almeno un paio di ragioni: era gratuita e le band elencate erano tutte più o meno tutte degne di nota.
Cosa rara, per altro, in questa città che costringe il cittadino ad uniformarsi all’iconografia del dandy fighetto.
Concerti interessanti, che siano di musica leggera, jazz o quant’altro, erano difficili da trovare a Milano, se si escludono due o tre locali che con coraggio spingevano un certo tipo di cultura.
La piega tremendamente asettica della città era uno scudo spaziale contro la cultura giovane, quella reale, non quella fatta solo di discoteche e Lacoste.
Tutti, a partire dai cittadini fino ad arrivare alla giunta comunale, avevano contribuito a creare una città fantasma, costruita sull’apparente benessere, sul machismo, sull’immagine e, soprattutto, sul tornaconto economico.
Di sostanza, c’era ben poco. Era tutto fumo negli occhi.
I divertimenti giovanili erano prestabiliti, prestampati, come ordinati dalla città stessa.
La sera c’era realmente poco da fare, esistevano la via dei locali notturni e la via dell’aperitivo. Il massimo della goduria era eseguire entrambe le soluzioni, una di fila all’altra.
I locali rispecchiavano chiaramente l’essenza della città, rappresentando al meglio il concetto del vuoto che appare magnifico e ricco di sostanza.
Perfino il pane che si consumava in città sembrava sottostare alla stessa attitudine, aveva infatti una bellissima scorza croccante ma, all’interno, c’era nient’altro che aria.
Le discoteche erano quindi posti fasulli, di cartapesta, dove per ammassarsi a morire di caldo bisognava pagare uno sproposito ed essere vestiti come ai matrimoni.
All’interno dei club si poteva intravedere, se ancora non si avevano gli occhi intrappolati nelle cateratte che la città andava posando sulle pupille dei propri cittadini-zombie, tutta la verità che c’era dietro all’apparire: giovani donne, uomini, ragazzini e persone più anziane, tutte con il “vestito della domenica” (come si usava fare 50 anni fa) a far finta di essere meglio di quello che si è in realtà.
Tutti felici di sembrare dei piccoli Briatore, dei Berlusconi in erba, con il loro cocktail -finto- raffinato in mano, il loro modo di fare spavaldo. Era davvero lo specchio della cultura cittadina, nel quale vi erano riflessi i principi fondamentali dell’etica milanese:
_ Avere sempre, per quanto possibile, una bella presenza, un aspetto curato.
_ Mostrare di essere benestanti (anche se non lo si è) con i modi di fare e con l’abbigliamento. Meglio una camicia firmata che una dozzina di magliette normali.
_ Sorridere sempre, per dare l’idea di successo, di felicità, di “bella vita”.
_ Scegliere con cura le persone che vi stanno vicino. Sarebbe meglio se fossero anche loro dei vincenti, ma mai migliori di voi, altrimenti rischiereste di passare inosservati e di non spiccare nel gruppo.
_ Se avete una Porsche, per Dio, appendetevi le chiavi al collo!
_ Sniffate cocaina, i potenti lo fanno, quindi sarete potenti anche voi.
_ Non parlate mai di politica, è tremendamente out, al massimo elogiate qualche potente che ha fatto tanti soldi, in modo da rendere ulteriormente chiaro qual è il vostro stile di vita. Voi siete dalla parte di chi vince, ricordatevelo.
_ Il prezzo delle cose è direttamente proporzionale alla loro validità.
_ La musica bella è quella che si ascolta nei posti belli. Al contrario, in un posto senza selezione all’ingresso non ci sarà mai musica decente. D’altronde potrebbe essere un posto da barboni.
Sembra esagerata questa lista, una fiera delle banalità, una presa in giro, una caricatura grottesca dei new-yuppies.
Purtroppo invece l’elenco riporta fedelmente le basi della cultura che in città andava per la maggiore, senza esagerazioni o forzature di alcun tipo (nemmeno per il punto 5).
È pleonastico precisare che la città non era fatta solo d’immagine e di apparenza, c’era chiaramente l’altra faccia della medaglia, una cultura sotterranea che strisciava, seppur con fatica, attraverso le vene di Milano e dei milanesi.
C’erano posti dove ancora i giovani potevano andare per aggregarsi, ascoltar musica, fare arte o semplicemente rilassarsi senza dover dimostrare di essere i più fichi o i più ricchi del quartiere.
Il locale che ospitava la manifestazione era uno di questi.
In quel posto, situato sulle rive artificiali del lago cittadino, ci avevo trascorso molte serate, spesso cercando di uccidere i miei soliti demoni con l’alcol.
Cercavo di avvelenarli, per farli star buoni un po’, e alle volte ci riuscivo.
Così ci andavo sempre volentieri, la birra era a buon prezzo e le band che suonavano erano sempre di alto livello.
Ci avevo sentito alcuni dei miei gruppi preferiti e sicuramente tutta la scena post-hardcore del nord Italia era passata dal suo palco.
Ero quindi incuriosito dalla lista di nomi riportati sul cartellone, più della metà li conoscevo, erano band che apprezzavo e che non mi sarebbe dispiaciuto vedere assieme in un’unica serata.
Il festival si svolgeva la sera stessa e, proprio mentre pensavo che ci sarei andato con piacere, sentii una voce femminile e ansimante alle mie spalle: “Uh, figo, suonano anche gli Zu!”.
Girai il capo rapidamente e vidi la ragazza che era dietro di me, stava sudando ed era vestita in maniera sportiva. Evidentemente aveva appena smesso di correre, le si vedeva ancora il pallore dello sforzo spalmato sul viso.
Aveva una canottiera di cotone bianco dalla quale risaltavano le spalle abbronzate, mentre più in basso spuntavano dei piccoli seni quasi appuntiti.
Era molto carina, con i capelli castano chiaro legati a formare una coda di cavallo che andava ad infrangersi sull’attaccatura del collo.
Sorrideva, sembrava una persona gioviale.
Le dissi che anche a me piacevano gli Zu e aggiunsi che sarei sicuramente andato a sentirli quella sera.
Lei rispose che non poteva venire, dato che la sua coinquilina, con la quale si sarebbe dovuta recare al locale, era partita e ora non aveva più il passaggio in macchina. Mentre pronunciava le parole “passaggio” e “macchina” fece una smorfietta, come quelle che spesso fanno le ragazze carine, quando sbattono le ciglia e fingono un timido dispiacere.
C’era qualcosa di esplicitamente sessuale in quella frase, e capii subito che in fondo era una richiesta, anche abbastanza sfrontata.
Le dissi che l’avrei passata a prendere io, senza problemi, tanto ero solo e non avevo certo problemi di posto in auto.
“Veramente?!? Come sei gentile!”, rispose tutta eccitata, passandosi la mano sui pantaloncini prima di allungarla verso di me.
“Mi chiamo Clara”.
“Io sono Romeo” risposi.
Quella sera, senza nemmeno rendermene conto, alle 21 ero sotto casa di Clara.
La vidi arrivare dal lato destro della mia auto, aveva una gonna lunga di colore scuro, una grossa borsa a tracolla e portava ancora i capelli legati in alto.
Cazzo, dissi dentro di me, è proprio carina.
Quando salì in macchina Clara mi salutò baciandomi due volte le guance e, se devo essere sincero, mi imbarazzò un poco quel contatto imprevisto.
Mentre guidavo verso la zona est della città, lei cominciò a farmi un sacco di domande.
Dove abiti, cosa fai nella vita, sei di Milano, vivi da solo, cos’hai studiato e tutte quelle menate.
Io risposi con una serie infinita di balle e, proprio in quel preciso istante, realizzai cosa stava accadendo.
Il suo profumo, doveva essere sandalo o qualcosa del genere, mi entrava nelle narici e mi pizzicava le mucose, facendomi innervosire ad ogni respiro.
Lei intanto parlava in continuazione, come una macchinetta.
Diceva anche delle cose intelligenti, non era proprio una stupidotta, ma il mio pensiero ormai era irrimediabilmente fisso a quella sera di primavera, quando la bestia che ho dentro divorò la mia umanità per uscire dalla gabbia ed avventarsi sulla sua prima preda.
Non riuscivo a pensare ad altro.
Rivedevo di continuo le immagini di quel corpo nudo e abusato che giaceva nel letto di una stanzetta del condominio studentesco della Bocconi.
La belva quella volta mi prese alla sprovvista, di contropiede, perché non mi aspettavo nulla del genere e perché non sapevo di avere il male dentro.
Ma questa volta giocavo a carte scoperte con il Passeggero Oscuro.
Lo sentivo muoversi dentro di me, mentre mi riscaldava il sangue attraverso le vene, il cuore, le arterie, i capillari.
La sensazione era di calma, forse apparente, ma sentivo di avere tutto sotto controllo.
Presi una strada secondaria, andandomi ad infilare in un parcheggio anonimo nei dintorni dell’idroscalo.
Il cielo stava ormai diventando nero e le piante che circondavano il piccolo spiazzo mi schermavano dai raggi lunari, aiutando l’oscurità ad abbracciarmi.
Quando spensi il motore sentii la prima vampata di calore salirmi dal profondo delle viscere fino alla punta dei capelli.
Il sudore cominciava a colare dalla fronte e dalle basette, andando a raccogliersi in piccole goccioline che ancora avevano dimensioni adatte per sopravvivere alla gravità rimanendo attaccate al mio viso.
Ma io le sentivo crescere e formare dei menischi flosci per effetto del loro peso acquoso. Stavano per cadere, per andare a schiantarsi.
Tutto intorno a me stava per cedere ad una forza più grande, le gocce di sudore non erano le sole ad essere governate da qualcosa di superiore.
“Siamo già arrivati?” mi chiese la ragazza con aria ingenua e inconsapevole.
Io le risposi che avevo parcheggiato proprio dietro il locale per evitare la coda del parcheggio principale.
Lei però in quel momento capì qualcosa, probabilmente riuscì a vedere il lampo del demone nei miei occhi, oppure doveva essere stata la mia voce tremante a tradire il mio stato di euforica mostruosità.
Vidi sul suo volto la paura.
E quell’espressione accese in me fortissimo e improvviso il desiderio di farle del male.
Volevo picchiarla e farla soffrire, volevo ucciderla.
La sete di morte si era manifestata in maniera chiara, senza indugi e stavolta più piacevole rispetto alla prima esperienza.
Come per ogni cosa, la prima volta è sempre troppo pervasa di eccitazione adrenalinica per godersela appieno.
Con il tempo ci si abitua, l’euforia c’è sempre, ma si riesce a gustarsi meglio il momento.
Io mi stavo godendo il momento.
Mi nutrivo della sua paura e sentivo un piacere irrefrenabile nel sapere che fra qualche piccola frazione di secondo lei sarebbe morta, avvolta nella mia stretta o sotto i colpi delle mie nocche dure e ossute.
Senza dire una parola, la ragazza ruotò il suo corpo magro facendolo scivolare sul sedile mentre con una mano tentava di raggiungere la maniglia della porta.
Mi diede le spalle.
Io fui rapidissimo: le passasi il braccio destro attorno al collo, prendendola da dietro.
Poi, con la mano sinistra, mi aiutai nel serrare quella tenaglia di ossa e carne.
Dovevo aver stretto molto forte, perché sentivo scricchiolare tutte le sue ossa all’interno della mia morsa.
I suoi piedi si muovevano senza sosta e le sue ginocchia sbattevano epilettiche contro ogni parte dell’automobile, fino a che la ragazza riuscì ad inarcarsi facendo leva puntando i talloni sul cruscotto.
A quel punto persi completamente il controllo.
Ero eccitato, sentivo di avere un’erezione e sapevo che ero solo all’inizio.
Godevo, cazzo, perché avevo il controllo completo. Lei non poteva sfuggirmi e quel gesto di ribellione alimentò maggiormente il diavolo che mi portavo dentro.
Avvicinai di colpo la mia bocca alla sua faccia e con un morso le strappai tutto lo zigomo sinistro.
Avevo serrato i denti con una brutalità tale da scheggiarmeli nell’urto fra le due arcate, perciò ero riuscito a lacerare tutto il tessuto che avevo addentato.
All’interno della mia bocca sentivo la sua carne e il suo grasso sottocutaneo mischiarsi con le mie mucose.
Non uscì molto sangue, ma il grasso che sgorgava era ripugnante, giallo e denso. Senza sosta continuava ad affiorare dalla lacerazione, producendo un effetto davvero diverso dalle ferite che siamo abituati a vedere quando ci tagliamo senza andare troppo in profondità.
Era orribile.
Lei aveva urlato in maniera disperata, più che per il dolore per la consapevolezza della fine.
Stava realizzando che il suo viaggio era al termine, che la sua vita di esile e giovane ragazza si stava spegnendo per sempre, all’interno di un’automobile dannata, fra le spire di una belva umana.
Era un grido triste, disilluso, come se avesse intravisto per un attimo tutto quello che era davvero il senso della vita: un vuoto infinito.
Mi fece pena, provai dolore per lei, povera ragazza.
Allentai di colpo la presa, sputando pezzi della sua faccia sul sedile.
Attraverso la fessura delimitata dalle labbra sottili e ben disegnate non vi era più parvenza di uno scambio di gas.
Era morta.
La scaricai senza nemmeno scendere, mi limitai ad aprire la porta e a spingere il suo corpo morto sull’asfalto caldo del parcheggio.
In quell’istante entrarono in macchina, di colpo, una decina di zanzare.
Mentre guidavo per uscire dallo spiazzo, mi misi a piangere.
Piansi perché non potevo sopportare la consapevolezza di aver spezzato un’altra vita. Avevo messo fine al percorso di una bella e intelligente ragazza, l’avevo lasciata senza respiro nel mezzo di un parcheggio deserto, con la faccia dilaniata e il corpo ancora caldo, a far da cibo per gli insetti estivi.
Tornai a casa, ancora piangendo.
Ne avevo uccisa un’altra, ero un assassino seriale, un pazzo malato e pericoloso.
Cercai dell’alcol, trovai una bottiglia di brandy, la bevvi tutta nel tentativo di disinfettarmi dal mostro che viveva giù nelle viscere.
Vomitai ripetutamente, continuando a piangere al pensiero di quel corpo atletico riverso come un manichino scaricato per caso in mezzo al nulla.
Poi mi addormentai.
Durante il sonno, sognai di essere su di un vascello in mezzo alla tempesta.
Le onde altissime sovrastavano la prua e invadevano il ponte, prolungando la loro lingua umida fino ai miei piedi.
L’acqua era nera come la morte e risaltava al contrasto con la schiuma bianca che con i suoi rivoli cercava di trascinarmi nell’abisso.
Io mi arrampicavo sempre più in alto, sugli alberi, fino a toccare le vele.
Ma l’abisso si gonfiava in mille enormi pance, pur di venirmi a prendere.
Ero terrorizzato, immobilizzato dalla paura di quell’acqua malvagia che si avvicinava mangiandosi un pezzo di vascello ad ogni bordata.
Alla fine arrivò l’onda più nera e orribile che avessi mai visto e inghiottì tutto quanto.
Il mio urlo muto si bloccò nella laringe, ma in qualche modo servì per riuscire a destarmi dal sonno.
Era mattino, andai al bagno e mi vidi nello specchio.
Avevo l’incisivo superiore destro scheggiato nella sua estremità interna.
Ecco un altro segno tangibile, fisico, reale e corporeo.
Dopo la prima volta mi rimase un lampo nell’occhio, ora avevo anche il dente a ricordarmi chi avevo dentro di me.
La belva.
Il demone.
L’assassino.
Il Passeggero Oscuro.
mercoledì 6 maggio 2009
La primavera è da sempre simbolo della rinascita, della forza della vita che torna prepotente dopo il ghiaccio.
Qui, ahimè, siamo agli antipodi.
La primavera è uno scherzo grottesco, una pozione velenosa che devia le menti.
Il seguente racconto è il primo degli scritti che compongono le cronache della follia.
Ci siamo, siamo entrati nel suo mondo.
P.s. Il periodo è quello giusto, prestate attenzione alle cose e, se potete, non innamoratevi degli sconosciuti.
LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #1
La prima volta avvenne in modo quasi naturale, come una pietra che prende a rotolare lungo un pendio.
Un’azione governata da un qualche tipo di forza, una gravità oscura che precipita gli eventi facendoli sfuggire al controllo degli attori.
Era un’inerzia sconosciuta, come quella che avvolge le menti delle persone normali quando si trasformano, anche per un attimo solo, in qualcosa di oscuro e imprevisto.
In quei momenti mi sembrava tutto normale, come un riflesso spontaneo e necessario.
Probabilmente furono le sue azioni, i suoi movimenti, le sue parole a mettere le cose sul piano inclinato. Queste ultime, non potendo vincere lo scivolamento, s’affossarono completamente in un abisso, scorrendo quasi senza rumore fino alla fine della base.
Ad aprile cominciavano a sentirsi i profumi del risveglio, la natura diffondeva i suoi colori ammalianti e gli esseri umani cercavano di seguire i loro istinti, facendosi trasportare dai sensi e dall’oscura regia dell’ipotalamo.
Io mi trascinavo lungo le strade della città, cercando di schivare le delusioni e sopprimendo il malessere che sentivo di avere laggiù, da qualche parte.
Ero diventato un tipo solitario da quando per qualche ragione stavo abbandonando la vita reale.
Distinguere il sogno dalla realtà era un’operazione sempre più complessa, che richiedeva ogni volta uno sforzo maggiore, sforzo che io non ero assolutamente più disposto ad offrire in cambio di quella piccola e non trasversale verità.
Avevo amici, qualche ragazza intorno, dei progetti piuttosto reali e una vita nitidamente distinta dal mondo onirico.
Poi sono scivolato e ora mi ritrovavo sempre in compagnia dei miei incubi, loro, quelli che mi accompagnavano all’interno delle notti più nere e attraverso i giorni più lucidi e luminosi.
Quella sera di primavera l’aria tiepida spingeva la polvere nei miei occhi, mentre le mie narici traevano forse beneficio, forse fastidio, da quel poco che riuscivano a distinguere in quel marasma di molecole organiche svolazzanti.
Mi sedetti sulla lastra di pietra che divideva il sagrato dalla fila di colonne, con in mano una bottiglia, mentre fumando aspettavo che facesse tardi, per poter così tornare a casa senza essermi soffermato troppo a pensare al corso della vita.
Il futuro è terribile quando non si è più adolescenti.
Quando si è giovani si ha sempre la forza di immaginare un futuro che sia migliore della condizione attuale, mentre poi, quando si invecchia, si capisce come funziona, come gira la ruota.
Il domani diventa una giornata sicuramente peggiore dell’oggi; i problemi aumenteranno, si avranno meno soldi o ci saranno più spese, la salute non sarà più salda come un tempo, il viso si riempirà di rughe, i denti faranno male, le donne non si soffermeranno più a sostenere il tuo sguardo, nessuno mischierà la sua carne con la tua.
Tutte le azioni dell’oggi non eviterebbero la decadenza, la sposterebbero solo un po’ in avanti sull’asse del tempo.
E allora si capisce l’inutilità di queste azioni, anzi, forse si potrebbe realizzare e comprendere quanto la ricerca del buon domani sia in realtà un peggioramento ulteriore dell’essere oggi.
La decadenza, fetente, arriverà comunque, ma intanto noi non abbiamo fatto altro che preoccuparci, seguire le regole, andare a letto presto, studiare stupidate su stupidate, lavare i piatti, rifare il letto, comprarci un’auto a rate, uscire con una donna solo perché è l’unica che ci accetta.
Se si conosce il movimento della ruota, tutto questo preoccuparsi e vivere ben bene sui binari appare di colpo uno sforzo inutile.
Io avevo intuito il meccanismo, quindi aspettavo la decadenza seduto sulla panchina di granito, mentre cercavo di rendermi meno spiacevole il mondo bevendo qualcosa di fresco.
La piazza era, come al solito, piena di persone più o meno giovani che passavano il tempo in maniera apparentemente molto serena.
Due ragazze si sedettero accanto a me, a cavalcioni sulla panchina, una con la schiena quasi attaccata alla mia spalla.
Evitavo quasi volutamente di sentire i loro discorsi, con la paura che questi avrebbero potuto turbare la mia inquietudine con la loro frivolezza.
Mi ricordo che accesi una sigaretta a meno di un minuto dal mozzicone appena schiacciato sotto la suola, in modo da distrarmi da quello che mi stava attorno.
La sigaretta finì e in pochi minuti terminò anche la birra che avevo stretta nella mano, per cui decisi che era giunto il momento di avvicinare il venditore ambulante e comprare un’altra bottiglia.
Feci tutte le operazioni del caso e mi accesi un’altra sigaretta, questa volta, forse, per farmi del male.
I miei pensieri si erano fermati sul fumo e, come un moderno Zeno, mi venne una sorta di senso di colpa, una sensazione chiara di quanto fosse stupido e insensato aspirare del fumo maleodorante e nocivo solo perché è un modo come un altro di combattere la noia che accompagna il ticchettio del tempo.
Mentre ero intento in questi pensieri da persona debole (il forte non fuma o se fuma lo fa con grande gusto), mi accorsi che qualcuno mi stava fissando.
Sentivo lo sguardo posarsi sul mio volto, lo percepivo, come si percepiscono gli oggetti vicini quando si hanno gli occhi chiusi.
Non volevo voltarmi perché sapevo che non sarei stato capace di guardare chi mi stava fissando senza fingere una falsa sorpresa, anche perché mi ero accorto da un po’ di quello sguardo.
Poi terminai la sigaretta e appena la schiacciai tra la gomma della suola e il porfido del suolo, voltai la testa.
Chi mi stava fissando era la ragazza che sedeva in fianco a me, a cavalcioni sulla panchina e con aria da stupida.
Avevo creduto fossero in due, tanto più che lei non era quella con la schiena quasi appoggiata al mio braccio, ma era quella che le stava di fronte.
La sua amica doveva essersi alzata mentre i miei pensieri erano fissi sul tabagismo oppure, questo è probabile, ero distratto e non mi ero accorto che la ragazza era da sola.
Tutto questo importa poco, anche perché la sconosciuta pronunciò una frase che mi distolse da tutte le altre faccende: “ma sai che mi sto innamorando di te?”.
La prima cosa che pensai è che questa doveva essere completamente cretina, poi invece mi guardai attorno cercando qualcuno che rideva, in preda alla felicità di aver fregato il suo amico Romeo con uno scherzo banale.
Non era così, l’opzione che si addiceva alla situazione era la prima, cioè la ragazza doveva avere dei problemi di salute mentale, anche perché ce ne vogliono per approcciare in questa maniera uno come me.
All’inizio la buttai sul ridere, ma poi cominciammo a fare conoscenza in maniera piuttosto seria, tralasciando il fatto che questa continuava a ripetere di essere innamorata di me.
Si chiamava Paola, studiava alla Bocconi, era pugliese, cicciottella e pendeva dalle mie labbra, qualsiasi cosa dicessi.
Non mi era mai capitato di fare colpo così in maniera fulminea su di una ragazza, non che fosse un gran colpo a dir la verità, però il mio ego si sentì rinvigorire e per un tempo che potrebbe variare dalla mezz’ora alle tre ore, non pensai più alla miseria degli esseri umani.
Ci conoscemmo un po’, io le raccontai un sacco di balle, le dissi che ero uno studente fuoricorso alla facoltà di fisica, così per evitare possibili collegamenti con una bocconiana (quando mai frequentano i fisici?).
Poi lei iniziò a dire una serie di banalità, di stupidate, di luoghi comuni, mettendo su una faccetta da schiaffi tipica di una cicciottella che si sente carina ed emancipata.
La mia istantanea tranquillità interiore cominciava ad abbandonarmi, sentivo una voglia irrefrenabile di fermare quella sua linguaccia sparacazzate, non riuscivo più a sopportare i suoi discorsi su Vasco (Cristo di un Dio) e su quanto fossi bello.
Decisi che avrei dovuto scoparmela in maniera violenta, lì, sul momento, o al più presto possibile, in modo da non sentirla più parlare.
Nel giro di pochi minuti, con una perizia ed un’abilità sconosciute alla mia normale personalità, le chiesi di lasciare la piazza per trasferirci nella sua stanza del dormitorio universitario.
Arrivammo allo stabile quando ormai avevo smesso di ascoltarla e riuscivo solo a pensare che l’avrei scopata per farle del male, per violentare il suo molle corpo di bocconiana banale.
Fu gentile con me, anche quando cercò di essere conturbante, mordendomi le labbra, cercando di farsi desiderare.
Riuscii a raggiungere l’erezione solo perché pensavo al male che le avrei fatto, sbattendola, schiaffeggiandola, lasciandole i segni di quella notte.
Mentre stava sotto di me, mentre la chiamavo con le peggiori parole che mi venivano in mente, mentre il mio sudore le colava sulle tette bianche, mentre sentivo le sue mucose diventare sempre più molli, fui sopraffatto da una vampata di calore che mi fece girare la testa e salire un demone dallo stomaco.
Non mi ero mai sentito così, ero come ubriaco al centro di un inferno in cui tutto si muoveva a scatti per l’effetto di una qualche malefica luce stroboscopica.
La sua faccia era spaventosa, riuscivo appena a distinguerla, era orrenda, era un diavolo. Aveva il trucco completamente sbavato, le guance rosse per gli impatti con i palmi delle mie mani e il rossetto spalmato sulla bocca come ce l’hanno i pagliacci del circo.
Orrenda, era orrenda.
Una specie di mostro molle, nel quale infilavo il cazzo con tutta la forza che avevo, cercando di non farmi spaventare dalla luce sinistra che invadeva il letto.
Sentivo i suoi gemiti, ora di godimento, ora di dolore, e non ne potevo più.
Le mie mani, con una naturalezza propria di un riflesso, si portarono al suo collo, stringendo fino a farmi male, fino a sentire il suono ripugnante delle articolazioni delle falangi sotto sforzo.
La sua spaventosa faccia si fece ancora più paurosa appena capì cosa le stava accadendo.
Era un clown senza forma, violentato, stuprato, con le fiamme negli occhi.
Poi tutto finì, le luci maledette se ne andarono, il tempo cominciò a fluire di nuovo senza intermittenze ed io sentivo il calore del mio sperma colare fuori dal corpo della ragazza.
Le tolsi le mani dal collo e, da quanto forte stavo stringendo, mi procurai un dolore immenso nel far ritornare le dita in posizione naturale, mentre evitavo di guardare il fantasma della mia vittima.
Non mi preoccupai di nascondere le mie tracce, non mi assicurai di non essere visto.
Semplicemente, mi rivestii e cercai di allontanarmi da quella tana di morte il più velocemente possibile.
Feci a piedi la strada per tornare a casa, evitando gli sguardi delle persone.
Ero in una sorta di coma attivo, sentivo che il mondo esterno e la mia persona erano due cose differenti, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Ma ero tranquillo, stranamente tranquillo, come se quello che avevo fatto fosse talmente orribile e grande da aver vergogna nel mostrare a me stesso una qualche forma di sgomento o dispiacere ipocrita.
Avevo superato il limite, varcato la soglia del non ritorno.
“La ragazza è morta” mi dicevo, “ora sono un assassino, nulla cambierà queste cose, non si torna indietro, il tempo non perdona. È come un fiume, scorre in un verso solo. E io sono la belva umana, una bestia nera che perde il controllo, sono un pazzo, uno stregone sotto un suo stesso incantesimo”.
Arrivai a casa e mi sdraiai sul letto.
Quella notte sognai la Via Lattea, sognai di volare per la galassia, fra le stelle.
Mi sentivo felice nel sonno, come da bambino.
La mattina seguente, il risveglio fu l’esatto contrario della notte, mi ricordo la nausea e il vomito, i tremori e l’ansia.
Avevo lasciato troppe tracce, mi avrebbero trovato, avrei finito -giustamente- la mia vita in galera.
Non riuscivo ancora a pensare in maniera completamente lucida a quello che era successo, perché i momenti di follia sono difficili da riportare a galla, anche se erano passate solo poche ore dal terribile evento. Inoltre ero davvero preoccupato per quello che sarebbe potuto succedere a breve; immaginavo la polizia che sarebbe entrata in casa mia sfondando la porta, con fucili mitragliatori puntati e carichi, come nei migliori film d’azione. Pensavo anche che per gli investigatori sarebbe stato un gioco da ragazzi arrivare a me, ricomponendo i tasselli della serata.
La ragazza era in compagnia di un’amica che sicuramente mi aveva visto, poi siamo andati da lei, al dormitorio, dove sicuramente qualche suo compagno di università deve avermi notato. Infine, c’era la prova più schiacciante: il dna. I miei residui erano sparsi per tutto il suo corpo e le mie impronte digitali decoravano ogni superficie della stanza. Ero certo che mi avrebbero arrestato entro qualche ora, quindi non cercai nemmeno di scappare lontano o di andare a nascondermi, sapevo quello sarebbe successo e aspettavo la forze dell’ordine quasi con tranquillità.
Si era già fatta l’ora di pranzo quando feci l’errore di accendere la televisione: due telegiornali in contemporanea parlavano dell’omicidio.
Rividi attraverso lo schermo l’ingresso del dormitorio, la sua cancellata, le scale di marmo. Mi girava la testa come un vortice e nella gola non scendeva più una goccia di saliva.
Quando vidi poi il sacco bianco che doveva contenere il corpo della ragazza, quasi soffocai con il mio stesso vomito.
Ero finito, mi avrebbero catturato ormai in qualche minuto e avrei vissuto il resto della mia vita in una cella buia cercando di non deperire troppo dolorosamente sotto il macigno insostenibile dei sensi di colpa.
Mi riaddormentai, svegliandomi quasi all’ora di cena.
I militari non erano ancora arrivati, nessun segno di FBI o forze speciali.
Richiusi gli occhi e dormii ancora per un’altra notte.
Il mattino seguente mi svegliai che era l’alba, la nausea se n’era andata, il mal di testa era diminuito e mi era tornato un certo appetito.
Preparai un caffè e scaldai del latte, mentre cominciavo a realizzare che forse potevo rimanere impunito. Era probabile che nessuno mi avesse visto, inoltre il dna trovato, per quanto ne potevo sapere io di quelle cose, apparteneva ad un beato sconosciuto.
Passarono i giorni e anche i telegiornali cominciarono a parlare meno dell’efferato omicidio della Bocconi, andando giustamente ad occuparsi di nuove disgrazie e di nuove sanguinose tragedie.
Io tornai alla normalità, cacciando sul fondo della mia oscurità quella storia di follia improvvisa esplosa in una fresca e profumata sera di aprile.
Anche ripensando all’accaduto (non che tutto mi apparisse chiaro, a dire la verità) ormai non mi sentivo più male. Non avevo nemmeno più i sensi di colpa. La pietra era rotolata fino a valle, tutto qui.
Solo, da quella notte, mi rimase uno strano difetto all’occhio sinistro: ogni volta che lo muovevo cercando di guardare in fianco, uno strano lampo arrivava dall’angolo della mia orbita.
Forse ero destinato a portare almeno un segno che mi ricordasse il sacrifico insensato di quella povera ragazza.
Qui, ahimè, siamo agli antipodi.
La primavera è uno scherzo grottesco, una pozione velenosa che devia le menti.
Il seguente racconto è il primo degli scritti che compongono le cronache della follia.
Ci siamo, siamo entrati nel suo mondo.
P.s. Il periodo è quello giusto, prestate attenzione alle cose e, se potete, non innamoratevi degli sconosciuti.
LE CRONACHE DELLA FOLLIA - #1
La prima volta avvenne in modo quasi naturale, come una pietra che prende a rotolare lungo un pendio.
Un’azione governata da un qualche tipo di forza, una gravità oscura che precipita gli eventi facendoli sfuggire al controllo degli attori.
Era un’inerzia sconosciuta, come quella che avvolge le menti delle persone normali quando si trasformano, anche per un attimo solo, in qualcosa di oscuro e imprevisto.
In quei momenti mi sembrava tutto normale, come un riflesso spontaneo e necessario.
Probabilmente furono le sue azioni, i suoi movimenti, le sue parole a mettere le cose sul piano inclinato. Queste ultime, non potendo vincere lo scivolamento, s’affossarono completamente in un abisso, scorrendo quasi senza rumore fino alla fine della base.
Ad aprile cominciavano a sentirsi i profumi del risveglio, la natura diffondeva i suoi colori ammalianti e gli esseri umani cercavano di seguire i loro istinti, facendosi trasportare dai sensi e dall’oscura regia dell’ipotalamo.
Io mi trascinavo lungo le strade della città, cercando di schivare le delusioni e sopprimendo il malessere che sentivo di avere laggiù, da qualche parte.
Ero diventato un tipo solitario da quando per qualche ragione stavo abbandonando la vita reale.
Distinguere il sogno dalla realtà era un’operazione sempre più complessa, che richiedeva ogni volta uno sforzo maggiore, sforzo che io non ero assolutamente più disposto ad offrire in cambio di quella piccola e non trasversale verità.
Avevo amici, qualche ragazza intorno, dei progetti piuttosto reali e una vita nitidamente distinta dal mondo onirico.
Poi sono scivolato e ora mi ritrovavo sempre in compagnia dei miei incubi, loro, quelli che mi accompagnavano all’interno delle notti più nere e attraverso i giorni più lucidi e luminosi.
Quella sera di primavera l’aria tiepida spingeva la polvere nei miei occhi, mentre le mie narici traevano forse beneficio, forse fastidio, da quel poco che riuscivano a distinguere in quel marasma di molecole organiche svolazzanti.
Mi sedetti sulla lastra di pietra che divideva il sagrato dalla fila di colonne, con in mano una bottiglia, mentre fumando aspettavo che facesse tardi, per poter così tornare a casa senza essermi soffermato troppo a pensare al corso della vita.
Il futuro è terribile quando non si è più adolescenti.
Quando si è giovani si ha sempre la forza di immaginare un futuro che sia migliore della condizione attuale, mentre poi, quando si invecchia, si capisce come funziona, come gira la ruota.
Il domani diventa una giornata sicuramente peggiore dell’oggi; i problemi aumenteranno, si avranno meno soldi o ci saranno più spese, la salute non sarà più salda come un tempo, il viso si riempirà di rughe, i denti faranno male, le donne non si soffermeranno più a sostenere il tuo sguardo, nessuno mischierà la sua carne con la tua.
Tutte le azioni dell’oggi non eviterebbero la decadenza, la sposterebbero solo un po’ in avanti sull’asse del tempo.
E allora si capisce l’inutilità di queste azioni, anzi, forse si potrebbe realizzare e comprendere quanto la ricerca del buon domani sia in realtà un peggioramento ulteriore dell’essere oggi.
La decadenza, fetente, arriverà comunque, ma intanto noi non abbiamo fatto altro che preoccuparci, seguire le regole, andare a letto presto, studiare stupidate su stupidate, lavare i piatti, rifare il letto, comprarci un’auto a rate, uscire con una donna solo perché è l’unica che ci accetta.
Se si conosce il movimento della ruota, tutto questo preoccuparsi e vivere ben bene sui binari appare di colpo uno sforzo inutile.
Io avevo intuito il meccanismo, quindi aspettavo la decadenza seduto sulla panchina di granito, mentre cercavo di rendermi meno spiacevole il mondo bevendo qualcosa di fresco.
La piazza era, come al solito, piena di persone più o meno giovani che passavano il tempo in maniera apparentemente molto serena.
Due ragazze si sedettero accanto a me, a cavalcioni sulla panchina, una con la schiena quasi attaccata alla mia spalla.
Evitavo quasi volutamente di sentire i loro discorsi, con la paura che questi avrebbero potuto turbare la mia inquietudine con la loro frivolezza.
Mi ricordo che accesi una sigaretta a meno di un minuto dal mozzicone appena schiacciato sotto la suola, in modo da distrarmi da quello che mi stava attorno.
La sigaretta finì e in pochi minuti terminò anche la birra che avevo stretta nella mano, per cui decisi che era giunto il momento di avvicinare il venditore ambulante e comprare un’altra bottiglia.
Feci tutte le operazioni del caso e mi accesi un’altra sigaretta, questa volta, forse, per farmi del male.
I miei pensieri si erano fermati sul fumo e, come un moderno Zeno, mi venne una sorta di senso di colpa, una sensazione chiara di quanto fosse stupido e insensato aspirare del fumo maleodorante e nocivo solo perché è un modo come un altro di combattere la noia che accompagna il ticchettio del tempo.
Mentre ero intento in questi pensieri da persona debole (il forte non fuma o se fuma lo fa con grande gusto), mi accorsi che qualcuno mi stava fissando.
Sentivo lo sguardo posarsi sul mio volto, lo percepivo, come si percepiscono gli oggetti vicini quando si hanno gli occhi chiusi.
Non volevo voltarmi perché sapevo che non sarei stato capace di guardare chi mi stava fissando senza fingere una falsa sorpresa, anche perché mi ero accorto da un po’ di quello sguardo.
Poi terminai la sigaretta e appena la schiacciai tra la gomma della suola e il porfido del suolo, voltai la testa.
Chi mi stava fissando era la ragazza che sedeva in fianco a me, a cavalcioni sulla panchina e con aria da stupida.
Avevo creduto fossero in due, tanto più che lei non era quella con la schiena quasi appoggiata al mio braccio, ma era quella che le stava di fronte.
La sua amica doveva essersi alzata mentre i miei pensieri erano fissi sul tabagismo oppure, questo è probabile, ero distratto e non mi ero accorto che la ragazza era da sola.
Tutto questo importa poco, anche perché la sconosciuta pronunciò una frase che mi distolse da tutte le altre faccende: “ma sai che mi sto innamorando di te?”.
La prima cosa che pensai è che questa doveva essere completamente cretina, poi invece mi guardai attorno cercando qualcuno che rideva, in preda alla felicità di aver fregato il suo amico Romeo con uno scherzo banale.
Non era così, l’opzione che si addiceva alla situazione era la prima, cioè la ragazza doveva avere dei problemi di salute mentale, anche perché ce ne vogliono per approcciare in questa maniera uno come me.
All’inizio la buttai sul ridere, ma poi cominciammo a fare conoscenza in maniera piuttosto seria, tralasciando il fatto che questa continuava a ripetere di essere innamorata di me.
Si chiamava Paola, studiava alla Bocconi, era pugliese, cicciottella e pendeva dalle mie labbra, qualsiasi cosa dicessi.
Non mi era mai capitato di fare colpo così in maniera fulminea su di una ragazza, non che fosse un gran colpo a dir la verità, però il mio ego si sentì rinvigorire e per un tempo che potrebbe variare dalla mezz’ora alle tre ore, non pensai più alla miseria degli esseri umani.
Ci conoscemmo un po’, io le raccontai un sacco di balle, le dissi che ero uno studente fuoricorso alla facoltà di fisica, così per evitare possibili collegamenti con una bocconiana (quando mai frequentano i fisici?).
Poi lei iniziò a dire una serie di banalità, di stupidate, di luoghi comuni, mettendo su una faccetta da schiaffi tipica di una cicciottella che si sente carina ed emancipata.
La mia istantanea tranquillità interiore cominciava ad abbandonarmi, sentivo una voglia irrefrenabile di fermare quella sua linguaccia sparacazzate, non riuscivo più a sopportare i suoi discorsi su Vasco (Cristo di un Dio) e su quanto fossi bello.
Decisi che avrei dovuto scoparmela in maniera violenta, lì, sul momento, o al più presto possibile, in modo da non sentirla più parlare.
Nel giro di pochi minuti, con una perizia ed un’abilità sconosciute alla mia normale personalità, le chiesi di lasciare la piazza per trasferirci nella sua stanza del dormitorio universitario.
Arrivammo allo stabile quando ormai avevo smesso di ascoltarla e riuscivo solo a pensare che l’avrei scopata per farle del male, per violentare il suo molle corpo di bocconiana banale.
Fu gentile con me, anche quando cercò di essere conturbante, mordendomi le labbra, cercando di farsi desiderare.
Riuscii a raggiungere l’erezione solo perché pensavo al male che le avrei fatto, sbattendola, schiaffeggiandola, lasciandole i segni di quella notte.
Mentre stava sotto di me, mentre la chiamavo con le peggiori parole che mi venivano in mente, mentre il mio sudore le colava sulle tette bianche, mentre sentivo le sue mucose diventare sempre più molli, fui sopraffatto da una vampata di calore che mi fece girare la testa e salire un demone dallo stomaco.
Non mi ero mai sentito così, ero come ubriaco al centro di un inferno in cui tutto si muoveva a scatti per l’effetto di una qualche malefica luce stroboscopica.
La sua faccia era spaventosa, riuscivo appena a distinguerla, era orrenda, era un diavolo. Aveva il trucco completamente sbavato, le guance rosse per gli impatti con i palmi delle mie mani e il rossetto spalmato sulla bocca come ce l’hanno i pagliacci del circo.
Orrenda, era orrenda.
Una specie di mostro molle, nel quale infilavo il cazzo con tutta la forza che avevo, cercando di non farmi spaventare dalla luce sinistra che invadeva il letto.
Sentivo i suoi gemiti, ora di godimento, ora di dolore, e non ne potevo più.
Le mie mani, con una naturalezza propria di un riflesso, si portarono al suo collo, stringendo fino a farmi male, fino a sentire il suono ripugnante delle articolazioni delle falangi sotto sforzo.
La sua spaventosa faccia si fece ancora più paurosa appena capì cosa le stava accadendo.
Era un clown senza forma, violentato, stuprato, con le fiamme negli occhi.
Poi tutto finì, le luci maledette se ne andarono, il tempo cominciò a fluire di nuovo senza intermittenze ed io sentivo il calore del mio sperma colare fuori dal corpo della ragazza.
Le tolsi le mani dal collo e, da quanto forte stavo stringendo, mi procurai un dolore immenso nel far ritornare le dita in posizione naturale, mentre evitavo di guardare il fantasma della mia vittima.
Non mi preoccupai di nascondere le mie tracce, non mi assicurai di non essere visto.
Semplicemente, mi rivestii e cercai di allontanarmi da quella tana di morte il più velocemente possibile.
Feci a piedi la strada per tornare a casa, evitando gli sguardi delle persone.
Ero in una sorta di coma attivo, sentivo che il mondo esterno e la mia persona erano due cose differenti, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Ma ero tranquillo, stranamente tranquillo, come se quello che avevo fatto fosse talmente orribile e grande da aver vergogna nel mostrare a me stesso una qualche forma di sgomento o dispiacere ipocrita.
Avevo superato il limite, varcato la soglia del non ritorno.
“La ragazza è morta” mi dicevo, “ora sono un assassino, nulla cambierà queste cose, non si torna indietro, il tempo non perdona. È come un fiume, scorre in un verso solo. E io sono la belva umana, una bestia nera che perde il controllo, sono un pazzo, uno stregone sotto un suo stesso incantesimo”.
Arrivai a casa e mi sdraiai sul letto.
Quella notte sognai la Via Lattea, sognai di volare per la galassia, fra le stelle.
Mi sentivo felice nel sonno, come da bambino.
La mattina seguente, il risveglio fu l’esatto contrario della notte, mi ricordo la nausea e il vomito, i tremori e l’ansia.
Avevo lasciato troppe tracce, mi avrebbero trovato, avrei finito -giustamente- la mia vita in galera.
Non riuscivo ancora a pensare in maniera completamente lucida a quello che era successo, perché i momenti di follia sono difficili da riportare a galla, anche se erano passate solo poche ore dal terribile evento. Inoltre ero davvero preoccupato per quello che sarebbe potuto succedere a breve; immaginavo la polizia che sarebbe entrata in casa mia sfondando la porta, con fucili mitragliatori puntati e carichi, come nei migliori film d’azione. Pensavo anche che per gli investigatori sarebbe stato un gioco da ragazzi arrivare a me, ricomponendo i tasselli della serata.
La ragazza era in compagnia di un’amica che sicuramente mi aveva visto, poi siamo andati da lei, al dormitorio, dove sicuramente qualche suo compagno di università deve avermi notato. Infine, c’era la prova più schiacciante: il dna. I miei residui erano sparsi per tutto il suo corpo e le mie impronte digitali decoravano ogni superficie della stanza. Ero certo che mi avrebbero arrestato entro qualche ora, quindi non cercai nemmeno di scappare lontano o di andare a nascondermi, sapevo quello sarebbe successo e aspettavo la forze dell’ordine quasi con tranquillità.
Si era già fatta l’ora di pranzo quando feci l’errore di accendere la televisione: due telegiornali in contemporanea parlavano dell’omicidio.
Rividi attraverso lo schermo l’ingresso del dormitorio, la sua cancellata, le scale di marmo. Mi girava la testa come un vortice e nella gola non scendeva più una goccia di saliva.
Quando vidi poi il sacco bianco che doveva contenere il corpo della ragazza, quasi soffocai con il mio stesso vomito.
Ero finito, mi avrebbero catturato ormai in qualche minuto e avrei vissuto il resto della mia vita in una cella buia cercando di non deperire troppo dolorosamente sotto il macigno insostenibile dei sensi di colpa.
Mi riaddormentai, svegliandomi quasi all’ora di cena.
I militari non erano ancora arrivati, nessun segno di FBI o forze speciali.
Richiusi gli occhi e dormii ancora per un’altra notte.
Il mattino seguente mi svegliai che era l’alba, la nausea se n’era andata, il mal di testa era diminuito e mi era tornato un certo appetito.
Preparai un caffè e scaldai del latte, mentre cominciavo a realizzare che forse potevo rimanere impunito. Era probabile che nessuno mi avesse visto, inoltre il dna trovato, per quanto ne potevo sapere io di quelle cose, apparteneva ad un beato sconosciuto.
Passarono i giorni e anche i telegiornali cominciarono a parlare meno dell’efferato omicidio della Bocconi, andando giustamente ad occuparsi di nuove disgrazie e di nuove sanguinose tragedie.
Io tornai alla normalità, cacciando sul fondo della mia oscurità quella storia di follia improvvisa esplosa in una fresca e profumata sera di aprile.
Anche ripensando all’accaduto (non che tutto mi apparisse chiaro, a dire la verità) ormai non mi sentivo più male. Non avevo nemmeno più i sensi di colpa. La pietra era rotolata fino a valle, tutto qui.
Solo, da quella notte, mi rimase uno strano difetto all’occhio sinistro: ogni volta che lo muovevo cercando di guardare in fianco, uno strano lampo arrivava dall’angolo della mia orbita.
Forse ero destinato a portare almeno un segno che mi ricordasse il sacrifico insensato di quella povera ragazza.
martedì 10 marzo 2009
memorie - parte 2
Nelle storie, si sa, tutto ha un inizio.
Il seguente scritto, una delle mie memorie, spiega come vengo a conoscenza del Fascicolo.
In quei giorni non davo il giusto peso alle cose.
Se avessi saputo farlo, forse ora non mi troverei in questa sistuazione.
E' di vitale importanza sapere vivere in maniera lucida, riconoscere il giusto peso delle cose.
Dobbiamo cercare di individuare i cardini, per poter sfruttare tutto a nostro favore.
Io non badavo a queste cose, avevo dalla mia un menefreghismo arrogante che mi faceva prendere tutto con una risata.
Pensavo che fosse tutto leggero.
Una sconosciuta, una storia di omicidi.
Non diedi il giusto peso alla cosa.
DALLE MIE MEMORIE, FEBBRAIO 2007
Due settimane e ancora ci penso.
Penso a quella notte surreale e ovattata.
Penso che non ci ho capito niente ma che comunque qualcosa mi è rimasto dentro.
Penso che non so nemmeno il suo nome, cazzo, ma si può?
Penso che potrei essere addirittura innamorato, assurdo.
Quindi, assurdo per assurdo, cerco di estirpare quella notte dalla mia testa convincendomi che sia solo frutto di una visione onirica causata dal gin.
Che merda, il gin.
Comunque, in qualche modo allontano le farfalle dalla pancia.
Faccio così: mi infilo la tracolla, collego tutto quello che devo collegare e posiziono la manopola del gain su “inferno”.
Il suono mi esplode sulla faccia, è un pugno.
Inizio una specie di mantra violento e dilatato, tenendo un tempo tutto mio.
Ecco come cacciare i demoni, li brucio col distorsore, i maledetti.
Continuo a spingere, con delle pennate che scalfiscono il corpo nero della chitarra.
Godo.
Sento le nocche graffiarsi contro le corde, mentre stono di brutto premendo troppo sul manico.
I pensieri volano via, svaniscono.
Sono entrato nel mio limbo dorato, per un attimo riesco a isolarmi da tutto.
Continuo per una decina di minuti, forse più, fino a quando un suono fastidioso ma familiare mi risveglia i pensieri, riportandomi alla realtà.
Sbuffo, è il campanello.
Appoggio la Telecaster sul divano e, mentre sento ripetersi il trillo nervoso, mi dirigo verso la porta.
Giro la maniglia e apro.
Ho il cuore che risale nel petto e si conficca in gola.
È lei.
Quasi non ci credo, mi viene da pensare che sia una specie di scherzo.
Abbasso le palpebre.
Le riapro.
Lei è ancora qui, davanti a me.
In mezzo secondo la analizzo da capo a piedi: è completante bagnata.
Fuori sta piovendo l’ira degli dei, in effetti.
Ha i capelli bagnati appiccicati alla faccia, è bellissima, con gli occhi lucidi come quando la vidi al locale.
La borsa a tracolla possiede il tipico colore del cartone bagnato, mentre tra le fibre dei suoi jeans la capillarità ha permesso all’acqua di risalire fin quasi al ginocchio.
Poi, proprio mentre sto pensando che indossa delle Vans molto carine, la sua voce interrompe la mia fulminea analisi.
“Non sapevo dove andare”, mi dice con voce preoccupata.
Io la faccio entrare e le dico che può asciugarsi in bagno, che ho degli asciugamani, forse anche un phon.
Lei non mi ascolta nemmeno, abbassa lo sguardo e varca la soglia d’ingresso.
Cammina verso il centro della stanza formando ad ogni passo delle pozze grosse come laghi.
Poi si volta verso di me. Il suo viso mi trasmette una profonda angoscia, sembra spaventata.
Io invece, tanto per cambiare, sono confuso.
Mi viene in mente che per due settimane ho pensato a questa sconosciuta incontrata per caso in una gelida notte surreale.
Realizzo che abbiamo anche dormito insieme, io senza sapere il suo nome, lei senza sapere il mio.
A questo punto penso sia lecito - se non giusto - presentarsi, usare le buone maniere, come si farebbe nella vita di tutti i giorni.
Mi presento quindi, cercando di coglierla un po’ di sorpresa: “ah, comunque io sono ***” .
Lei risponde come se avessi detto niente.
Non mi dice come si chiama.
No.
Mi parla di altro, di cose strane.
Dice che devo aiutarla, che potrebbe essere in pericolo perché ha trovato dei racconti che parlano di omicidi realmente commessi.
Poi ritratta, almeno in parte, dicendo che forse è solo uno fra i racconti ad essere il resoconto di un vero delitto.
Io credo quasi a nulla, anzi. Comincio a pensare che la ragazza, quella con gli occhi più belli del mondo, quella della quale non conosco il nome e che sta in piedi davanti a me gocciolando pioggia sul mio pavimento, abbia la mente su di un altro pianeta.
Le chiedo quindi di calmarsi, di riprendere fiato.
Insisto ancora che si asciughi.
Ma lei scuote la testa, mi guarda con quella faccia stupenda e mi dice “ti prego…”.
A quelle parole, dette con quella voce, non resisto.
Mi sento un cretino, ma decido di ascoltare e di fare almeno finta di credere a quello che dice.
Inizia così a raccontare le cose per bene, nel dettaglio.
Per la prima volta sento nominare il “fascicolo”. Non immagino neanche lontanamente quanto tormento porterà quella parola.
In sostanza mi racconta di aver trovato questo fascicolo in casa sua, dove convive con quello che a quanto pare è il suo ragazzo.
Dico a quanto pare perché lei descrive il rapporto con un certo distacco, lo avvolge nella nebbia, non pronuncia mai le parole “fidanzato”, “marito”.
Lo chiama invece “il ragazzo con il quale vivo” o, più semplicemente, Romeo.
Mi dice di essere sconvolta, perché è all’interno di quel fascicolo con la copertina di velluto scuro che ha trovato i fantomatici racconti.
Comincio a comprendere qualcosa.
Romeo è - forse - il suo ragazzo, fa lo scrittore, vive con lei e custodisce un fascicolo con dei racconti.
“Non sembra molto strano, è uno scrittore, dovrebbe essere normale trovare per casa degli scritti” le dico.
Lei risponde, terrorizzata, che in quei racconti si descrive precisamente l’omicidio di una sua conoscente.
Resto comunque incredulo, sulle mie, ma comincio a tremare.
Non mi spiego il perché.
Sento di essere tranquillo, eppure, piano piano, comincio ad inquietarmi.
Non è tanto per i racconti, per la storia macabra che mi racconta o per la paura che sia tutto vero. È piuttosto per la sua espressione. È devastata. Sembra che abbia appena visto un fantasma terrificante.
Poi comincia a raccontarmi la storia della sua amica Anna.
Circa sei mesi fa, durante l’estate del 2006, ci fu una grande festa per celebrare la laurea di alcuni amici.
Da quanto capisco doveva essere una cosa abbastanza in grande, in una discoteca, con almeno 200 invitati.
Nottata a quanto pare delirante, con i festeggiati che vomitano e i festeggianti che fanno di peggio.
Alla fine delle nottata però nessuno ritrova Anna. Il cellulare suona libero ma nessuna traccia di lei.
Gli amici cominciano a chiedersi l’un l’altro dove sia, poi allargano le indagini a persone meno intime, fino a chiedere a chiunque sia ancora nel locale.
Si preoccupano perché Anna non è tipa da sparire senza avvisare. Anche se avesse deciso di tornare a casa da sola, avrebbe avvisato sicuramente.
Tra preoccupazione e ubriachezza, quasi tutti tornano alle loro abitazioni.
Rimane solo il gruppetto di amici più intimi della ragazza.
Arriva l’alba e ancora niente.
Decidono di chiamare la famiglia, per sapere se Anna è a casa.
Nessuna traccia.
Avvertono la polizia, passa qualche ora di “assestamento” e cominciano le indagini.
Insomma, Anna viene ritrovata il giorno dopo.
Il suo cadavere è gonfio ma non ci sono segni di percosse.
Nessuna violenza sessuale.
È morta per strangolamento, senza apparentemente aver lottato.
Non ha lividi o unghie spezzate e a quanto pare è stata usata una cinghia o una fascia in tessuto per bloccare l’afflusso di sangue e aria.
Il corpo di Anna è stato trovato dagli agenti nella stazione dell’acquedotto antistante al locale. Da quanto capisco è una specie di stazione di distribuzione dell’acqua, ci sono pompe e cisterne. Chiaramente è tutto isolato da una rete metallica, ma non c’è nessun servizio notturno che assicuri la non violazione del limite.
L’unica misura di sicurezza è una telecamera, che però è fissa sulle pompe e serve solo per monitorare il corretto funzionamento dell’impianto.
Anche perché è difficile che qualcuno entri furtivamente in una stazione di distribuzione dell’acqua, penso. Cosa si può fare in un luogo del genere?
Forse non sto considerando l’ipotesi di strangolare una ragazza con una fascia in tessuto.
Dalle analisi non risulta che Anna fosse drogata, aveva bevuto, sì, ma era cosciente.
Probabilmente l’assassino ha attirato la vittima in quel luogo appartato e poi l’ha strangolata, forse per un rifiuto di fronte ad avances sessuali.
In ogni caso, le indagini sono ancora aperte e nessun potenziale indiziato è stato individuato.
Sconforto e dolore da parte degli amici, rabbia e sconcerto da parte dei familiari che non riescono a comprendere chi possa avere compiuto un così orribile gesto, senza un movente concreto, senza una spiegazione logica.
Il racconto termina con un lungo silenzio.
Io sono più che imbarazzato anche perché lei sembra ancora più sconvolta di prima.
Gli occhi sono gonfi dal pianto e la voce è tremante, strozzata.
“Cosa c’entra tutto questo con il fascicolo che hai trovato?”, chiedo alla mia misteriosa ospite.
Lei si fa ancora più oscura in volto e mi spiega che nel fascicolo ha trovato tre o quattro scritti, dei racconti brevi che parlano in prima persona delle esperienze di un assassino.
All’inizio questi racconti non la impressionano, perché pensano siano appunti sparsi del suo amico-fidanzato.
Poi arriva all’ultimo foglio.
Il racconto parla dell’omicidio di Anna in maniera dettagliata.
Non lascia spazio all’immaginazione, l’autore, Romeo, dice di essere l’assassino.
Descrive con precisione tutte le fasi della serata, dalla festa fino allo strangolamento della ragazza.
“E’ tutto così reale” mi dice, “Ci sono anche io in quel racconto, ci siamo tutti noi che eravamo a quella festa…mi sembra di riconoscere anche i discorsi, le frasi, le cose che ci siamo detti”.
Poi esplode in un pianto, io mi avvicino e l’abbraccio.
Cerco di tranquillizzarla e, non senza fatica, ci riesco.
Poi le spiego che io lavoro per un editore e che ho spesso a che fare con scrittori (o presunti tali).
Spesso utilizzano storie reali, che li riguardano da vicino, per trasformare il tutto in racconti, romanzi o poesie.
Provo a spiegarle che la cosa più intelligente è parlarne con lui, con Romeo.
Lei mi interrompe e mi dice che ci ha già parlato, per questo è scappata e mi ha raggiunto a casa.
Lui l’ha vista, entrando in casa, leggere i racconti del fascicolo.
Lei mi racconta di come abbia provato a chiedere spiegazioni, sui quegli scritti, su Anna.
È andato su tutte le furie, le ha strappato di mano i fogli e le ha chiesto di uscire di casa.
A questo punto una domanda mi sembra ovvia: “perché non vai alla polizia?”.
Lei risponde che non è sicura, che forse sta esagerando, in fondo è davvero uno scrittore, potrebbero essere solo idee, appunti, e poi “come faccio ad andare dalla polizia per dei racconti trovati ad uno che di mestiere fa lo scrittore?”, mi dice.
Forse sto cominciando a farla ragionare, forse è ancora sconvolta dalla morte dell’amica e trovare quel racconto può aver alterato un po’ la sua percezione delle cose.
Le chiedo cosa ha intenzione di fare.
Risponde che vuole tornare a casa, per prendere il fascicolo, per rubarlo, portarlo via.
Così avrebbe modo di leggerlo con calma e magari di andare alla polizia con una prova reale.
Mi chiede di accompagnarla.
Io, non sapendo di fare il primo passo verso l’oblio, acconsento.
Per la sua sicurezza, non posso lasciarla andare da sola.
E poi, io sono il suo “cavaliere”, quello che l’ha strappata da quel casino di notte, un paio di settimane fa. Non posso rifiutarmi.
Anche perché lei ha una specie di magnete che, magico e misterioso, mi attira facendomi perdere i riferimenti con ciò che è reale e ciò che non lo è.
Il viaggio in macchina verso casa di Romeo è un inferno fra le vie della città, sotto la pioggia e nell’ora di punta.
Però, al contrario della prima sera, questa volta parliamo.
Le racconto del mio lavoro, che sono una sorta di aiutante tuttofare di un editore e che spesso mi occupo della selezione artistica.
È una coincidenza divertente questa.
La storia gira attorno ad uno scrittore, potrei anche conoscerlo e averlo incontrato.
È anche molto probabile, dato che quello che gira in città al 99% passa dalle nostre scrivanie (in realtà dalla mia, solo pochi arrivano a quella del grande capo).
Magari ho già letto i suoi racconti, le sue storie.
Magari le ho cestinate e sono passate nel dimenticatoio, chissà.
Strano però che non ricordi questo Romeo. Di solito tendo a ricordarmi tutti i nomi degli scrittori, è utile.
Poi mi dice che qui in città ancora non ha contatti con editori e che l’unica cosa che ha terminato è un romanzo dal titolo “Nemesi”, scritto sotto pseudonimo, e che sta per essere pubblicato da un editore fiorentino.
Al momento non indago oltre, non chiedo quale fosse lo pseudonimo usato. Non approfondisco nemmeno sull’editore fiorentino (sarà la Nasso edizioni, mi dico).
Le chiedo invece della sera nella quale ci siamo incontrati e lei me ne parla in maniera tranquilla anche se un po’ approssimata.
Scopro, al momento senza grande sorpresa, che il ragazzo che avevo colpito sul naso era Romeo.
Non mi ricordo nulla del suo volto, mi viene in mente solo che indossava un cappotto scuro, forse grigio.
Sprovveduto e stupido, ci rido anche sopra.
Penso che sia buffo andare a rubare i racconti di questo scrittore al quale una notte ho portato via la ragazza ringraziandolo con un pugno sul muso.
Non immagino nemmeno alla lontana quello che sta per succedere, il mondo di follia in cui sto per entrare.
Avrei dovuto rifiutarmi di accompagnarla, buttarla fuori di casa, questa pazza.
Anzi, non avrei proprio dovuto conoscerla quella maledetta sera.
Sono un testa di cazzo, perché non me ne sto al mio posto?
Perché sono tornato al locale, dopo che ce ne eravamo già andati?
Avrei potuto schivare tutta questa faccenda.
Ma non l’ho fatto.
Arriviamo davanti ad un vecchio palazzo, siamo esattamente tra Romolo e Porta Genova.
Lascio la macchina in doppia fila con le frecce accese e scendiamo.
Lei ha le chiavi di casa.
Entriamo nel portone e superiamo l’atrio che divide due ampie scale.
Passiamo dal cortile interno e ci dirigiamo verso il lato destro.
Guardo in alto, è una vecchia casa di ringhiera, un po’ malconcia ma tutto sommato carina.
Lei si ferma davanti ad una rampa che porta in uno scantinato.
Infila la chiave nel lucchetto che chiude un portone con la vernice scura e mi fa cenno con la testa.
Entriamo piano, con il timore di poter trovare lo scrittore, forse assassino, che ho picchiato due settimane fa.
Non c’è nessuno.
La ragazza accende la luce: davanti ai miei occhi vedo una stanza molto grande, con delle colonne scrostate nel mezzo. Un tempo era sicuramente una fabbrica, magari una di quelle piene di tavoli e banchetti, con donne più o meno concentrate nel cucire a macchina grandi porzioni di tessuti.
Quello che vedo è infatti il risultato dell’adattamento di quella vecchia officina.
Un grande monolocale, con il letto al centro e tanti libri sui grossi scaffali di legno grezzo.
L’ambiente è umido e sicuramente clandestino, ma mi piace, è bello, trasmette una bella sensazione.
Potrei viverci benissimo in un posto così, anche perché casa mia non è molto differente.
Appena ci avviciniamo allo scaffale più grande, la mia compagna di avventura inizia a cercare fra i libri disordinati.
Non trova nulla, nessuna traccia del fascicolo.
Mi chiede di aiutarla a cercare questo portadocumenti di velluto scuro e io provo ad accontentarla anche se passo la maggior parte del tempo a spulciare i libri che trovo buttati sulle assi degli scaffali.
Bergson, Bukowski, Céline, Cervantes, Defoe.
Ottimo, penso. Ci sono tutti i classici, anche quelli più trascurati dal mondo accademico.
Comincio a pensare che possa essere un bravo scrittore questo Romeo.
Comunque, la mia ricerca dura poco.
Lei è convinta che il fascicolo non ci sia più, e mi dice che probabilmente l’ha portato via lui, l’ha nascosto o fatto sparire, per non lasciare tracce e prove.
Decidiamo di andarcene, dopo aver controllato nella stanza per circa una quindicina di minuti.
Lei prende degli abiti da un armadio, poi della biancheria.
Infila tutto in una borsa non molto grande, poi prende dei soldi da un cassetto e dei documenti da un altro.
Spegne la luce e siamo fuori.
Torniamo a casa mia, questa volta ci impieghiamo meno tempo, il traffico sta già scemando e non piove più.
Siamo piuttosto incerti sul da farsi.
Io le dico che può restare da me quanto vuole, che non c’è nessun problema.
Lei mi assicura che sarà solo per una notte, perché ha intenzione di andarsene domani dalla città.
Dice che raggiungerà un’amica a Lisbona: “me ne voglio andare, devo cambiare aria, non voglio più sapere niente di questa storia.”
Io sento vibrare la coscia sinistra, a metà strada tra l’anca e i testicoli.
È il telefono cellulare.
Rispondo.
Dall’altra parte del telefono c’è il grande capo, che con il suo vocione da cantante lirico mi avvisa di passare a prendere le prime copie di “Primavera sterile”, l’ultimo libro edito dalla nostra -anzi, dalla sua- amatissima fucina di incredibili talenti letterari.
“Ok, grande capo”, rispondo.
Avviso quindi la ragazza che devo assolutamente uscire ma le dico che lei può rimanere in casa, farsi una doccia, asciugarsi e mettersi comoda.
Forse c’è anche della birra da qualche parte.
Lei annuisce e sorride, sembra più rilassata.
Accetta di rimanere a casa mia, anche perché ha ancora indosso quei vestiti umidissimi e penso che una doccia calda a questo punto sia una scelta obbligata.
L’atmosfera tesa della giornata sta per lasciare spazio ad una strana tranquillità, una specie di sensazione pacifica e piacevole che stona non poco con la storia inquietante in cui ci troviamo, o meglio, in cui (per adesso) si trova lei.
Una felicità stupida mi risale dallo stomaco nel vederla un po’ più rilassata e nel notare che il suo volto ha anche altre espressioni oltre all’angoscia.
Quanto è bella, penso, poi mi volto e giro la maniglia.
“Ci metterò una mezz’oretta, magari passo a prendere qualcosa da mangiare. Ti va del sushi?”
“il sushi va benissimo, grazie.”
“Perfetto allora. A dopo”.
Sto per chiudere la porta quando sento ancora la sua voce:
“Cristina. Mi chiamo Cristina”.
Io le sorrido ed esco di casa.
In venti minuti ho già ritirato lo scatolone con le prime copie di “Primavera sterile” e sono diretto al supermercato.
Una volta all’interno del grande magazzino alimentare mi dirigo rapido verso il banco frigo, prendo due barchette di sushi, poi passo a prendere qualche birra, una bottiglia di Coca-cola e via verso l’ultima cassa rimasta aperta.
Una calda e soave voce femminile mi avvisa dagli altoparlanti che il supermarket sta chiudendo.
Pago, imbusto e torno al parcheggio.
Dieci minuti ancora e sono a casa.
Il sentimento di stupida felicità che deriva dall’avere Cristina a casa mia supera quello di paura e inquietudine per la vicenda di Romeo.
Potrebbe essere la ex ragazza di Hannibal Lecter, che mi fregherebbe nulla ugualmente.
Apro il portone e con un sorriso da ebete saluto la signora del terzo piano che porta fuori il cane.
Salgo le scale tre per volta, rischiando di cadere e di compromettere così la nostra cena.
Arrivo alla porta, la apro velocemente ed entro in casa.
“Eccomi…tutto bene?” dico io per avvisare Cristina della mia presenza.
Non sento risposta.
Attraverso la stanza e scendo in cucina.
Niente.
Risalgo e provo al bagno.
Sul pavimento e sullo specchio i segni della doccia.
Noto anche un asciugamano ripiegato un po’ di fretta.
Solo, non trovo Cristina.
Non ci sono i suoi vestiti, non c’è la sua borsa.
Se n’è andata di nuovo.
E questa volta non mi ha lasciato biglietti.
“Ma porca troia”, dico ad alta voce con tono rassegnato, “questa è pazza”.
Passo la serata ad ingozzarmi con i maki imbevuti di salsa di soia, mentre un paio di litri di birra aiutano ad ingoiare tutto quel pesce crudo.
Mi sento un cretino.
Poi sorrido e dico fra me e me: “almeno ora conosco il tuo nome, Cristina”.
Il seguente scritto, una delle mie memorie, spiega come vengo a conoscenza del Fascicolo.
In quei giorni non davo il giusto peso alle cose.
Se avessi saputo farlo, forse ora non mi troverei in questa sistuazione.
E' di vitale importanza sapere vivere in maniera lucida, riconoscere il giusto peso delle cose.
Dobbiamo cercare di individuare i cardini, per poter sfruttare tutto a nostro favore.
Io non badavo a queste cose, avevo dalla mia un menefreghismo arrogante che mi faceva prendere tutto con una risata.
Pensavo che fosse tutto leggero.
Una sconosciuta, una storia di omicidi.
Non diedi il giusto peso alla cosa.
DALLE MIE MEMORIE, FEBBRAIO 2007
Due settimane e ancora ci penso.
Penso a quella notte surreale e ovattata.
Penso che non ci ho capito niente ma che comunque qualcosa mi è rimasto dentro.
Penso che non so nemmeno il suo nome, cazzo, ma si può?
Penso che potrei essere addirittura innamorato, assurdo.
Quindi, assurdo per assurdo, cerco di estirpare quella notte dalla mia testa convincendomi che sia solo frutto di una visione onirica causata dal gin.
Che merda, il gin.
Comunque, in qualche modo allontano le farfalle dalla pancia.
Faccio così: mi infilo la tracolla, collego tutto quello che devo collegare e posiziono la manopola del gain su “inferno”.
Il suono mi esplode sulla faccia, è un pugno.
Inizio una specie di mantra violento e dilatato, tenendo un tempo tutto mio.
Ecco come cacciare i demoni, li brucio col distorsore, i maledetti.
Continuo a spingere, con delle pennate che scalfiscono il corpo nero della chitarra.
Godo.
Sento le nocche graffiarsi contro le corde, mentre stono di brutto premendo troppo sul manico.
I pensieri volano via, svaniscono.
Sono entrato nel mio limbo dorato, per un attimo riesco a isolarmi da tutto.
Continuo per una decina di minuti, forse più, fino a quando un suono fastidioso ma familiare mi risveglia i pensieri, riportandomi alla realtà.
Sbuffo, è il campanello.
Appoggio la Telecaster sul divano e, mentre sento ripetersi il trillo nervoso, mi dirigo verso la porta.
Giro la maniglia e apro.
Ho il cuore che risale nel petto e si conficca in gola.
È lei.
Quasi non ci credo, mi viene da pensare che sia una specie di scherzo.
Abbasso le palpebre.
Le riapro.
Lei è ancora qui, davanti a me.
In mezzo secondo la analizzo da capo a piedi: è completante bagnata.
Fuori sta piovendo l’ira degli dei, in effetti.
Ha i capelli bagnati appiccicati alla faccia, è bellissima, con gli occhi lucidi come quando la vidi al locale.
La borsa a tracolla possiede il tipico colore del cartone bagnato, mentre tra le fibre dei suoi jeans la capillarità ha permesso all’acqua di risalire fin quasi al ginocchio.
Poi, proprio mentre sto pensando che indossa delle Vans molto carine, la sua voce interrompe la mia fulminea analisi.
“Non sapevo dove andare”, mi dice con voce preoccupata.
Io la faccio entrare e le dico che può asciugarsi in bagno, che ho degli asciugamani, forse anche un phon.
Lei non mi ascolta nemmeno, abbassa lo sguardo e varca la soglia d’ingresso.
Cammina verso il centro della stanza formando ad ogni passo delle pozze grosse come laghi.
Poi si volta verso di me. Il suo viso mi trasmette una profonda angoscia, sembra spaventata.
Io invece, tanto per cambiare, sono confuso.
Mi viene in mente che per due settimane ho pensato a questa sconosciuta incontrata per caso in una gelida notte surreale.
Realizzo che abbiamo anche dormito insieme, io senza sapere il suo nome, lei senza sapere il mio.
A questo punto penso sia lecito - se non giusto - presentarsi, usare le buone maniere, come si farebbe nella vita di tutti i giorni.
Mi presento quindi, cercando di coglierla un po’ di sorpresa: “ah, comunque io sono ***” .
Lei risponde come se avessi detto niente.
Non mi dice come si chiama.
No.
Mi parla di altro, di cose strane.
Dice che devo aiutarla, che potrebbe essere in pericolo perché ha trovato dei racconti che parlano di omicidi realmente commessi.
Poi ritratta, almeno in parte, dicendo che forse è solo uno fra i racconti ad essere il resoconto di un vero delitto.
Io credo quasi a nulla, anzi. Comincio a pensare che la ragazza, quella con gli occhi più belli del mondo, quella della quale non conosco il nome e che sta in piedi davanti a me gocciolando pioggia sul mio pavimento, abbia la mente su di un altro pianeta.
Le chiedo quindi di calmarsi, di riprendere fiato.
Insisto ancora che si asciughi.
Ma lei scuote la testa, mi guarda con quella faccia stupenda e mi dice “ti prego…”.
A quelle parole, dette con quella voce, non resisto.
Mi sento un cretino, ma decido di ascoltare e di fare almeno finta di credere a quello che dice.
Inizia così a raccontare le cose per bene, nel dettaglio.
Per la prima volta sento nominare il “fascicolo”. Non immagino neanche lontanamente quanto tormento porterà quella parola.
In sostanza mi racconta di aver trovato questo fascicolo in casa sua, dove convive con quello che a quanto pare è il suo ragazzo.
Dico a quanto pare perché lei descrive il rapporto con un certo distacco, lo avvolge nella nebbia, non pronuncia mai le parole “fidanzato”, “marito”.
Lo chiama invece “il ragazzo con il quale vivo” o, più semplicemente, Romeo.
Mi dice di essere sconvolta, perché è all’interno di quel fascicolo con la copertina di velluto scuro che ha trovato i fantomatici racconti.
Comincio a comprendere qualcosa.
Romeo è - forse - il suo ragazzo, fa lo scrittore, vive con lei e custodisce un fascicolo con dei racconti.
“Non sembra molto strano, è uno scrittore, dovrebbe essere normale trovare per casa degli scritti” le dico.
Lei risponde, terrorizzata, che in quei racconti si descrive precisamente l’omicidio di una sua conoscente.
Resto comunque incredulo, sulle mie, ma comincio a tremare.
Non mi spiego il perché.
Sento di essere tranquillo, eppure, piano piano, comincio ad inquietarmi.
Non è tanto per i racconti, per la storia macabra che mi racconta o per la paura che sia tutto vero. È piuttosto per la sua espressione. È devastata. Sembra che abbia appena visto un fantasma terrificante.
Poi comincia a raccontarmi la storia della sua amica Anna.
Circa sei mesi fa, durante l’estate del 2006, ci fu una grande festa per celebrare la laurea di alcuni amici.
Da quanto capisco doveva essere una cosa abbastanza in grande, in una discoteca, con almeno 200 invitati.
Nottata a quanto pare delirante, con i festeggiati che vomitano e i festeggianti che fanno di peggio.
Alla fine delle nottata però nessuno ritrova Anna. Il cellulare suona libero ma nessuna traccia di lei.
Gli amici cominciano a chiedersi l’un l’altro dove sia, poi allargano le indagini a persone meno intime, fino a chiedere a chiunque sia ancora nel locale.
Si preoccupano perché Anna non è tipa da sparire senza avvisare. Anche se avesse deciso di tornare a casa da sola, avrebbe avvisato sicuramente.
Tra preoccupazione e ubriachezza, quasi tutti tornano alle loro abitazioni.
Rimane solo il gruppetto di amici più intimi della ragazza.
Arriva l’alba e ancora niente.
Decidono di chiamare la famiglia, per sapere se Anna è a casa.
Nessuna traccia.
Avvertono la polizia, passa qualche ora di “assestamento” e cominciano le indagini.
Insomma, Anna viene ritrovata il giorno dopo.
Il suo cadavere è gonfio ma non ci sono segni di percosse.
Nessuna violenza sessuale.
È morta per strangolamento, senza apparentemente aver lottato.
Non ha lividi o unghie spezzate e a quanto pare è stata usata una cinghia o una fascia in tessuto per bloccare l’afflusso di sangue e aria.
Il corpo di Anna è stato trovato dagli agenti nella stazione dell’acquedotto antistante al locale. Da quanto capisco è una specie di stazione di distribuzione dell’acqua, ci sono pompe e cisterne. Chiaramente è tutto isolato da una rete metallica, ma non c’è nessun servizio notturno che assicuri la non violazione del limite.
L’unica misura di sicurezza è una telecamera, che però è fissa sulle pompe e serve solo per monitorare il corretto funzionamento dell’impianto.
Anche perché è difficile che qualcuno entri furtivamente in una stazione di distribuzione dell’acqua, penso. Cosa si può fare in un luogo del genere?
Forse non sto considerando l’ipotesi di strangolare una ragazza con una fascia in tessuto.
Dalle analisi non risulta che Anna fosse drogata, aveva bevuto, sì, ma era cosciente.
Probabilmente l’assassino ha attirato la vittima in quel luogo appartato e poi l’ha strangolata, forse per un rifiuto di fronte ad avances sessuali.
In ogni caso, le indagini sono ancora aperte e nessun potenziale indiziato è stato individuato.
Sconforto e dolore da parte degli amici, rabbia e sconcerto da parte dei familiari che non riescono a comprendere chi possa avere compiuto un così orribile gesto, senza un movente concreto, senza una spiegazione logica.
Il racconto termina con un lungo silenzio.
Io sono più che imbarazzato anche perché lei sembra ancora più sconvolta di prima.
Gli occhi sono gonfi dal pianto e la voce è tremante, strozzata.
“Cosa c’entra tutto questo con il fascicolo che hai trovato?”, chiedo alla mia misteriosa ospite.
Lei si fa ancora più oscura in volto e mi spiega che nel fascicolo ha trovato tre o quattro scritti, dei racconti brevi che parlano in prima persona delle esperienze di un assassino.
All’inizio questi racconti non la impressionano, perché pensano siano appunti sparsi del suo amico-fidanzato.
Poi arriva all’ultimo foglio.
Il racconto parla dell’omicidio di Anna in maniera dettagliata.
Non lascia spazio all’immaginazione, l’autore, Romeo, dice di essere l’assassino.
Descrive con precisione tutte le fasi della serata, dalla festa fino allo strangolamento della ragazza.
“E’ tutto così reale” mi dice, “Ci sono anche io in quel racconto, ci siamo tutti noi che eravamo a quella festa…mi sembra di riconoscere anche i discorsi, le frasi, le cose che ci siamo detti”.
Poi esplode in un pianto, io mi avvicino e l’abbraccio.
Cerco di tranquillizzarla e, non senza fatica, ci riesco.
Poi le spiego che io lavoro per un editore e che ho spesso a che fare con scrittori (o presunti tali).
Spesso utilizzano storie reali, che li riguardano da vicino, per trasformare il tutto in racconti, romanzi o poesie.
Provo a spiegarle che la cosa più intelligente è parlarne con lui, con Romeo.
Lei mi interrompe e mi dice che ci ha già parlato, per questo è scappata e mi ha raggiunto a casa.
Lui l’ha vista, entrando in casa, leggere i racconti del fascicolo.
Lei mi racconta di come abbia provato a chiedere spiegazioni, sui quegli scritti, su Anna.
È andato su tutte le furie, le ha strappato di mano i fogli e le ha chiesto di uscire di casa.
A questo punto una domanda mi sembra ovvia: “perché non vai alla polizia?”.
Lei risponde che non è sicura, che forse sta esagerando, in fondo è davvero uno scrittore, potrebbero essere solo idee, appunti, e poi “come faccio ad andare dalla polizia per dei racconti trovati ad uno che di mestiere fa lo scrittore?”, mi dice.
Forse sto cominciando a farla ragionare, forse è ancora sconvolta dalla morte dell’amica e trovare quel racconto può aver alterato un po’ la sua percezione delle cose.
Le chiedo cosa ha intenzione di fare.
Risponde che vuole tornare a casa, per prendere il fascicolo, per rubarlo, portarlo via.
Così avrebbe modo di leggerlo con calma e magari di andare alla polizia con una prova reale.
Mi chiede di accompagnarla.
Io, non sapendo di fare il primo passo verso l’oblio, acconsento.
Per la sua sicurezza, non posso lasciarla andare da sola.
E poi, io sono il suo “cavaliere”, quello che l’ha strappata da quel casino di notte, un paio di settimane fa. Non posso rifiutarmi.
Anche perché lei ha una specie di magnete che, magico e misterioso, mi attira facendomi perdere i riferimenti con ciò che è reale e ciò che non lo è.
Il viaggio in macchina verso casa di Romeo è un inferno fra le vie della città, sotto la pioggia e nell’ora di punta.
Però, al contrario della prima sera, questa volta parliamo.
Le racconto del mio lavoro, che sono una sorta di aiutante tuttofare di un editore e che spesso mi occupo della selezione artistica.
È una coincidenza divertente questa.
La storia gira attorno ad uno scrittore, potrei anche conoscerlo e averlo incontrato.
È anche molto probabile, dato che quello che gira in città al 99% passa dalle nostre scrivanie (in realtà dalla mia, solo pochi arrivano a quella del grande capo).
Magari ho già letto i suoi racconti, le sue storie.
Magari le ho cestinate e sono passate nel dimenticatoio, chissà.
Strano però che non ricordi questo Romeo. Di solito tendo a ricordarmi tutti i nomi degli scrittori, è utile.
Poi mi dice che qui in città ancora non ha contatti con editori e che l’unica cosa che ha terminato è un romanzo dal titolo “Nemesi”, scritto sotto pseudonimo, e che sta per essere pubblicato da un editore fiorentino.
Al momento non indago oltre, non chiedo quale fosse lo pseudonimo usato. Non approfondisco nemmeno sull’editore fiorentino (sarà la Nasso edizioni, mi dico).
Le chiedo invece della sera nella quale ci siamo incontrati e lei me ne parla in maniera tranquilla anche se un po’ approssimata.
Scopro, al momento senza grande sorpresa, che il ragazzo che avevo colpito sul naso era Romeo.
Non mi ricordo nulla del suo volto, mi viene in mente solo che indossava un cappotto scuro, forse grigio.
Sprovveduto e stupido, ci rido anche sopra.
Penso che sia buffo andare a rubare i racconti di questo scrittore al quale una notte ho portato via la ragazza ringraziandolo con un pugno sul muso.
Non immagino nemmeno alla lontana quello che sta per succedere, il mondo di follia in cui sto per entrare.
Avrei dovuto rifiutarmi di accompagnarla, buttarla fuori di casa, questa pazza.
Anzi, non avrei proprio dovuto conoscerla quella maledetta sera.
Sono un testa di cazzo, perché non me ne sto al mio posto?
Perché sono tornato al locale, dopo che ce ne eravamo già andati?
Avrei potuto schivare tutta questa faccenda.
Ma non l’ho fatto.
Arriviamo davanti ad un vecchio palazzo, siamo esattamente tra Romolo e Porta Genova.
Lascio la macchina in doppia fila con le frecce accese e scendiamo.
Lei ha le chiavi di casa.
Entriamo nel portone e superiamo l’atrio che divide due ampie scale.
Passiamo dal cortile interno e ci dirigiamo verso il lato destro.
Guardo in alto, è una vecchia casa di ringhiera, un po’ malconcia ma tutto sommato carina.
Lei si ferma davanti ad una rampa che porta in uno scantinato.
Infila la chiave nel lucchetto che chiude un portone con la vernice scura e mi fa cenno con la testa.
Entriamo piano, con il timore di poter trovare lo scrittore, forse assassino, che ho picchiato due settimane fa.
Non c’è nessuno.
La ragazza accende la luce: davanti ai miei occhi vedo una stanza molto grande, con delle colonne scrostate nel mezzo. Un tempo era sicuramente una fabbrica, magari una di quelle piene di tavoli e banchetti, con donne più o meno concentrate nel cucire a macchina grandi porzioni di tessuti.
Quello che vedo è infatti il risultato dell’adattamento di quella vecchia officina.
Un grande monolocale, con il letto al centro e tanti libri sui grossi scaffali di legno grezzo.
L’ambiente è umido e sicuramente clandestino, ma mi piace, è bello, trasmette una bella sensazione.
Potrei viverci benissimo in un posto così, anche perché casa mia non è molto differente.
Appena ci avviciniamo allo scaffale più grande, la mia compagna di avventura inizia a cercare fra i libri disordinati.
Non trova nulla, nessuna traccia del fascicolo.
Mi chiede di aiutarla a cercare questo portadocumenti di velluto scuro e io provo ad accontentarla anche se passo la maggior parte del tempo a spulciare i libri che trovo buttati sulle assi degli scaffali.
Bergson, Bukowski, Céline, Cervantes, Defoe.
Ottimo, penso. Ci sono tutti i classici, anche quelli più trascurati dal mondo accademico.
Comincio a pensare che possa essere un bravo scrittore questo Romeo.
Comunque, la mia ricerca dura poco.
Lei è convinta che il fascicolo non ci sia più, e mi dice che probabilmente l’ha portato via lui, l’ha nascosto o fatto sparire, per non lasciare tracce e prove.
Decidiamo di andarcene, dopo aver controllato nella stanza per circa una quindicina di minuti.
Lei prende degli abiti da un armadio, poi della biancheria.
Infila tutto in una borsa non molto grande, poi prende dei soldi da un cassetto e dei documenti da un altro.
Spegne la luce e siamo fuori.
Torniamo a casa mia, questa volta ci impieghiamo meno tempo, il traffico sta già scemando e non piove più.
Siamo piuttosto incerti sul da farsi.
Io le dico che può restare da me quanto vuole, che non c’è nessun problema.
Lei mi assicura che sarà solo per una notte, perché ha intenzione di andarsene domani dalla città.
Dice che raggiungerà un’amica a Lisbona: “me ne voglio andare, devo cambiare aria, non voglio più sapere niente di questa storia.”
Io sento vibrare la coscia sinistra, a metà strada tra l’anca e i testicoli.
È il telefono cellulare.
Rispondo.
Dall’altra parte del telefono c’è il grande capo, che con il suo vocione da cantante lirico mi avvisa di passare a prendere le prime copie di “Primavera sterile”, l’ultimo libro edito dalla nostra -anzi, dalla sua- amatissima fucina di incredibili talenti letterari.
“Ok, grande capo”, rispondo.
Avviso quindi la ragazza che devo assolutamente uscire ma le dico che lei può rimanere in casa, farsi una doccia, asciugarsi e mettersi comoda.
Forse c’è anche della birra da qualche parte.
Lei annuisce e sorride, sembra più rilassata.
Accetta di rimanere a casa mia, anche perché ha ancora indosso quei vestiti umidissimi e penso che una doccia calda a questo punto sia una scelta obbligata.
L’atmosfera tesa della giornata sta per lasciare spazio ad una strana tranquillità, una specie di sensazione pacifica e piacevole che stona non poco con la storia inquietante in cui ci troviamo, o meglio, in cui (per adesso) si trova lei.
Una felicità stupida mi risale dallo stomaco nel vederla un po’ più rilassata e nel notare che il suo volto ha anche altre espressioni oltre all’angoscia.
Quanto è bella, penso, poi mi volto e giro la maniglia.
“Ci metterò una mezz’oretta, magari passo a prendere qualcosa da mangiare. Ti va del sushi?”
“il sushi va benissimo, grazie.”
“Perfetto allora. A dopo”.
Sto per chiudere la porta quando sento ancora la sua voce:
“Cristina. Mi chiamo Cristina”.
Io le sorrido ed esco di casa.
In venti minuti ho già ritirato lo scatolone con le prime copie di “Primavera sterile” e sono diretto al supermercato.
Una volta all’interno del grande magazzino alimentare mi dirigo rapido verso il banco frigo, prendo due barchette di sushi, poi passo a prendere qualche birra, una bottiglia di Coca-cola e via verso l’ultima cassa rimasta aperta.
Una calda e soave voce femminile mi avvisa dagli altoparlanti che il supermarket sta chiudendo.
Pago, imbusto e torno al parcheggio.
Dieci minuti ancora e sono a casa.
Il sentimento di stupida felicità che deriva dall’avere Cristina a casa mia supera quello di paura e inquietudine per la vicenda di Romeo.
Potrebbe essere la ex ragazza di Hannibal Lecter, che mi fregherebbe nulla ugualmente.
Apro il portone e con un sorriso da ebete saluto la signora del terzo piano che porta fuori il cane.
Salgo le scale tre per volta, rischiando di cadere e di compromettere così la nostra cena.
Arrivo alla porta, la apro velocemente ed entro in casa.
“Eccomi…tutto bene?” dico io per avvisare Cristina della mia presenza.
Non sento risposta.
Attraverso la stanza e scendo in cucina.
Niente.
Risalgo e provo al bagno.
Sul pavimento e sullo specchio i segni della doccia.
Noto anche un asciugamano ripiegato un po’ di fretta.
Solo, non trovo Cristina.
Non ci sono i suoi vestiti, non c’è la sua borsa.
Se n’è andata di nuovo.
E questa volta non mi ha lasciato biglietti.
“Ma porca troia”, dico ad alta voce con tono rassegnato, “questa è pazza”.
Passo la serata ad ingozzarmi con i maki imbevuti di salsa di soia, mentre un paio di litri di birra aiutano ad ingoiare tutto quel pesce crudo.
Mi sento un cretino.
Poi sorrido e dico fra me e me: “almeno ora conosco il tuo nome, Cristina”.
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