E' passato più di un anno, ed io non me ne sono reso conto.
I pensieri viaggiano alla velocità della luce, il tempo si dilata e tenerne conto diventa un'operazione impossibile per una mente sublunare.
Abbiate ancora un poco di pazienza, perchè la storia sta per concludersi.
Sono troppo stanco per scrivere un riassunto, è meglio pubblicare man mano il materiale che ho scritto in questi lunghi mesi.
Di seguito trovate le mie memorie di marzo 2007, le ho divise in parti per evitare di creare un garbuglio di avvenimenti e di storie.
Qualcuno diceva che anche la jella si stanca, a lungo andare.
Io non so se ci credo più.
Buona lettura.
DALLE MIE MEMORIE - MARZO 2007 - parte prima
I premi letterari, si sa, sono una mezza farsa.
Tanto più sono importanti, tanto più sono architettati e manovrati.
A tirare i fili del gioco ci sono gli editori, i quali decidono tutto riguardo partecipanti e vincitori, in perfetta ottica di mercato.
È il marketing, baby.
Sono i soldi, i verdoni, il cash. C’è nulla da fare.
È per questo motivo che stare seduto qui ad assistere alla messinscena del nuovo premio letterario ideato dalla giunta comunale della mia fantastica città è piuttosto snervante.
Il Grande Capo mi ha già detto chi vincerà, togliendomi tutta la suspense del caso e facendomi di conseguenza estraniare da tutta la cerimonia.
Lui, il boss, non è seduto con me, ma appoggia il suo culone pesante sul finto velluto rosso delle poltroncine in prima fila. È pur sempre un editore, d’altronde.
Io invece sono in ventesima fila che cerco di non addormentarmi tra una presentazione e l’altra.
Il “nostro” Primavera Sterile è arrivato ad un soffio dal podio e a noi questo risultato basta e avanza.
Se si considera poi che il romanzo è mediocre, potrei arrivare ad affermare che io e il Grande Capo stavolta abbiamo fatto un capolavoro di promozione, quasi al pari dei Testimoni di Geova con i loro opuscoli e libelli.
Comunque, conoscere da subito le sorti del nostro libro rende ancora più noiosa la mia mattinata, portando il mio organismo sull’orlo di una crisi di sonno improvvisa.
Devo combattere Morfeo a tutti i costi, anche perché se vengo di nuovo beccato a dormire durante un premio o una presentazione, è la volta buona che perdo il posto.
Alla mia sinistra c’è Silvia, l’autrice di Primavera Sterile, bravissima ragazza, per l’amor di Dio, ma noiosa come i suoi pantaloni a costine marroni (perché gli scrittori devono sempre vestirsi da scrittori? Maglione non troppo impegnativo, magari un po’ sgualcito, pantaloni di velluto e sciarpetta sempre attorno al collo, anche se dovessero trovarsi nella Death Valley in pieno luglio).
Alla mia destra, per fortuna, siede Alberto, vecchio compagno di università e infaticabile mitragliatore sparacazzate.
È grazie alle storie di Alberto -e ai tre caffè- che riesco a rimanere in uno stato più o meno decente, se si ignorano le occhiaie che poco a poco si allargano prendendo il sopravvento sul resto del viso.
Mentre mi racconta dell’ultima aspirante scrittrice che si è scopato, il mio pensiero vaga tra l’ilarità delle parole del mio amico e la pesantezza di quelle del presentatore della manifestazione.
Cerco di immaginare Alberto mentre si prodiga in un cunnilingus affondando fra le gambe di una giovane biondina sexy, ma la divertente scenetta è interrotta dalla mia coscienza, la quale, rientrando in me all’improvviso, mi ricorda che la cosa è solo frutto della mente visionaria di un cacciaballe.
È questo il brutto delle balle, il fatto che poi uno non ci crede.
Eppure sarebbe così bello se tutte quelle storie fossero vere: scopate, donne ubriache, modelle sotto la scrivania, fisting con la moglie del capo mentre lui è nell’altra stanza.
Alberto insomma è un cazzone, ma è anche un pezzo di pane, buonissimo, un vero amico.
E poi, mica è poco, mi tiene sveglio fino alla fine della premiazione.
A vincere è il giovane scrittore Luca Medeghino, con la sua opera prima, “Il volto di mia madre”.
È un buon libro, tutto dedicato alla madre e alla malattia che se l’è divorata.
In certi punti è terribilmente noioso, ma è scritto bene, emoziona ed ha un bacino di potenziali lettori molto ampio.
In fondo se lo merita, anche se Primavera Sterile viene molto probabilmente da una penna più ispirata, per quanto anch’essa incline alla noia mortale.
Pazienza, sarà per la prossima volta, per adesso mi preoccupo solo di tornare a casa e di riuscire a dormire un po’, visto che sono stremato dalla mancanza di sonno dovuta al mal di testa che in questo periodo si è fatto sotto come un pugile incazzato all’ultimo round.
Il grande capo mi passa a fianco, sorride ed è tanto rosso in viso da far apparire scolorita la sua cravatta carminio, mi rifila una pacca sulla spalla e dondolando fra le persone ed i sedili si avvia verso l’aria aperta.
Data la temperatura del teatro, anche Alberto si congeda: “Ci sentiamo una di queste sere, magari facciamo una birra sui navigli”.
“Perfetto”, rispondo io.
Imbottigliato nel traffico, cerco invano la via più rapida per arrivare a casa di Silvia, la quale intanto mi parla di come sia scandaloso che i premi letterari vengano vinti solo dagli editori più forti.
“È il marketing, baby”… Cerco di spiegarglielo ma sembra non capire.
Magari è un po’ ferita, un po’ disillusa. Ne ha tutte le ragioni, povera Silvia. Si veste come un professore di fisica ma è pur sempre una creatura dotata di un cuore.
La lascio stare, non merita le mie lezioni sul mondo, non oggi almeno.
Arrivo quindi alla meta, saluto la mia passeggera e riparto verso casa.
Appena entrato percorro veloce il corridoio, scendo in cucina e apro il frigorifero in cerca di qualcosa da bere. Tutto quel caffè mi ha impastato la bocca.
C’è solo acqua, ma non è un male.
Sollevo il capo e inizio a bere attaccandomi alla bottiglia, l’anidride carbonica solletica la mia laringe e mi gonfia un po’ le guance.
Mi fermo, immobile, con la bocca ancora piena d’acqua ghiacciata a tal punto da provocarmi un leggero dolore agli incisivi.
Sono in una specie di stato catatonico, come imbambolato.
I miei occhi però si muovono e scrutano gli oggetti sul tavolo: chiavi di casa, chiavi dell’auto, un badge con una mia foto sbiadita, il portafrutta con una banana annerita e una mela secca, la posta di qualche settimana.
Chiudo la porta del frigorifero, appoggio la bottiglia dell’acqua sul tavolo e mi metto a sedere davanti alla piccola e disordinata pila di buste.
Bollette e pubblicità, non si trova altro fra la posta, di solito.
Apro la busta sulla quale campeggia il logo della compagnia di telecomunicazioni che malauguratamente gestisce il mio telefono e cerco di capire come mai ogni due mesi la tariffa sembra aumentare.
Non capisco, quindi mi arrendo e lascio il prospetto del mio conto sul tavolo a far compagnia alla frutta marcia.
Il resto lo butto.
Riprendo la bottiglia e mi avvicino al soggiorno bevendo un altro sorso.
Accendo il pc e faccio partire il lettore, selezionando un disco a caso.
Mi sdraio sul divano senza accendere la luce e i TV on the Radio riempiono la stanza con la loro musica.
Chiudo gli occhi e inizio a dormire quasi subito, sento le punte dei piedi che si scaldano piano, mentre la musica spinge delicatamente la coscienza fuori da me.
Al risveglio mi sembra di aver chiuso gli occhi per una manciata di minuti, ma mi accorgo dalla temperatura dell’acqua che probabilmente ho dormito per più di un’ora, anche perché “ Return to cookie mountain” deve essere almeno al secondo giro.
Sdraiato sul fianco destro, posso vedere con la coda dell’occhio una luce intermittente rossa che, giuro, non mi capitava di vedere da anni.
Mi chiedo chi ancora ha il coraggio di lasciare messaggi in segreteria.
Ci sono gli sms, è la prima cosa che mi viene in mente.
Al momento non penso nemmeno al fatto che chi telefona possa essere sprovvisto del mio numero di cellulare.
L’unica cosa che mi gira in testa, che si fa spazio nella soffice confusione del risveglio, è la musica che durante il sonno si è propagata nei miei padiglioni auricolari.
Mi alzo e chiudo il lettore, facendo smettere di suonare Kyp Malone e soci.
Poi guardo lo schermo e in basso a destra ci sono due numeri che mi mettono agitazione: devo andare a cena con Claudio e Giulia, e lo devo fare tra 15 minuti.
Sono in ritardo, come al solito, per cui svolgo a velocità curvatura le seguenti attività:
_ Accendo una sigaretta.
_ Mi aggiro per la casa strofinandomi la testa e inciampando contro qualsiasi oggetto mentre cerco di recuperare dei vestiti che sembrino a posto.
_ Apro il getto dell’acqua e mi ci butto sotto prima di sondare la temperatura con la mano, causandomi ustioni diffuse su ogni parte del corpo.
_ Infilo vestiti, cappellino e scarpe, prendo le chiavi e spengo le luci.
_ Scendo le scale.
_ Bestemmio.
_ Risalgo le scale.
_ Rientro in casa, stavolta prendo il portafogli, riscendo le scale.
_ Accendo una sigaretta.
Quando finalmente arrivo al locale, il mio ritardo è di circa 26 minuti.
Claudio e Giulia stanno fumando appoggiati alla vetrina del locale, stretti per rientrare nel cono di luce calda dell’alogena.
Le loro facce sono rilassate, in fondo è una bella serata, non sarebbero capaci di arrabbiarsi per un così innocente ritardo. Anche perché ormai -si spera- mi conoscono e sono dunque coscienti del fatto che la puntualità è una dote che non ho (come quella di avvitare tappi in plastica su filettature in metallo, ma questa è un’altra storia).
Mi salutano, sono felici di vedermi, anche perché nell’ultimo periodo abbiamo avuto difficoltà nell’incontrarci e quindi un po’ ci siamo mancati.
Claudio è il mio migliore amico, lo conosco da fin dove arriva la mia memoria. Se penso a dei ricordi del mio passato, lui c’era, era lì con me.
È un architetto che si divide fra lo studio e le lezioni al politecnico, dove tiene un corso di “non-so-cosa 3D”. Dev’essere anche bravo nel suo lavoro, tanto che ne è oberato a tal punto di aver difficoltà nel trovare il tempo per nutrirsi; glielo dico sempre, io, che un giorno morirà di fame e che lo troveremo chino sui suoi progetti mentre avrà già preso le sembianze di un’enorme prugna secca.
Lavoro a parte, Claudio è il mio compagno di scorribande, di sbronze, di nottatacce e di molestie, ma, allo stesso tempo, è anche -insieme a Giulia- il mio confidente.
Certe volte penso che serate come questa, dove siamo a cena noi tre come fossimo una piccola famiglia, sono ormai un rito nel quale io mi confesso aprendomi totalmente nella speranza di essere illuminato da un consiglio dei due, i quali, ai miei occhi, sono più o meno la coppia perfetta e quindi hanno sempre ragione.
Giulia è l’opposto di Claudio; se il mio amico è sempre indaffarato, di fretta e incasinato in tutto e per tutto, la sua dolce metà è l’esempio vivente che la dottrina Zen funziona senza ombra di dubbio.
La calma in persona, davvero, ha sempre tutto sotto controllo. Con il suo nasino all’insù, il suo corpicino magro, i suoi capelli castani e il suo sorriso amichevole. Con lei va sempre tutto bene, i problemi si risolvono, le decisioni si prendono senza dolore e le sconfitte sono solo il motivo di una nuova risata. La adoro, non so che farei senza di lei, è come una sorella.
Per dirla tutta ha anche due palle grosse così, visto che per vivere insieme a Claudio ci vuole un coraggio non indifferente; il mio amico, oltre a vivere con dei ritmi che per gli esseri umani non cinesi sono insostenibili, è tutt’altro che una persona conforme al tessuto sociale. Lo definirei sui generis, giusto per non dire che è un pazzo fottuto. Eccentrico, iperattivo, chiassoso, senza pudore alcuno, sfacciato, burbero e materialista. D’acchito può sembrare l’essere umano più stronzo della terra ma, conoscendolo, ci si accorge che è solo una scorza, uno scudo, e che in realtà è una persona con un cuore enorme.
Certo, odia i preti, i comunisti, i fascisti, i discotecari, quelli che vanno nei centri sociali, quelli che votano Berlusconi, quelli che votano sinistra, quelli che pensano che la sinistra esista ancora, quelli che corrono in città, quelli che si spostano in bicicletta, quelli che non attraversano sulle strisce (l’ho detto che è un pirata della strada, no?), quelli che attraversano sulle strisce, quelli alti, quelli bassi, quelli stronzi e quelli grassi.
Ecco, si capisce in parte da dove arriva la mia infinita stima nei confronti di Giulia.
Che donna! l’unica che riesce a tenerlo a bada. Le basta un sorriso, una frase, un movimento delle mani e lui si placa. Ce l’avessi io, una Giulia…
Comunque, quando mi vedono arrivare mi accolgono con un sorriso, senza farmi pesare il ritardo. Anzi, Giulia mi abbraccia forte e mi schiocca un bacione sullo zigomo, mentre Claudio, vabè, lui forse un po’ bestemmia mentre mi saluta.
Entrando nel locale mi accorgo dalle maschere pseudo-Azteche che sto per mangiare pessimo cibo messicano dal costo non proprio irrisorio.
Il vero dramma però riguarda il beveraggio: Miller. Porco Cristo.
Ci adeguiamo, anche perché il calore della compagnia è tale da farmi dimenticare la schiuma saponata che una delle peggiori birre al mondo riesce a formare quando si mescola ai cibi piccanti.
Mentre anestetizziamo le nostre cavità orali con ogni specie di peperoncino esistente, cominciamo a parlare di tutto, del più e del meno, come si dice.
Dopo qualche avventura urbana di Claudio (lite con le suore al semaforo compresa) e qualche aneddoto di Giulia, ecco che parte il terzo grado sulla mia vita.
Mi chiedono come me la passo, se per caso ho trovato la ragazza, perché sono preoccupati del fatto che me ne sto sempre solo.
Io spiego loro -come se poi non lo sapessero- che da solo ci sto benissimo, che non sento affatto il bisogno di un’altra persona per vivere meglio e che è per questo motivo che non ho una da anni compagna.
Certo, qualche amica ogni tanto mi fa compagnia, mi aiuta a non annegare dentro me stesso, ma sono sempre troppo vigliacco o troppo insofferente per creare qualcosa di duraturo.
Giulia mi rimprovera sempre di non avere abbastanza sensibilità per riuscire a capire cosa voglio.
Forse ha ragione, Giulia raramente si sbaglia.
Poi arriva la domanda che mi fa tremare:
“E quella ragazza che hai conosciuto al Lips?”
Io: “quale ragazza?”, esclamo mentre cerco di guardare nient’altro che il fondo ambrato del mio bicchiere.
Giulia: “dai, non fare lo stronzo, quella che ti sei portato a casa e che se n’è andata la mattina…quella del bigliettino e tutto il resto”.
“Quale resto?” rispondo fingendo di essere arrabbiato.
“Claudio me l’ha raccontato, che ti sei preso una cotta per quella che ti ha usato!”.
“Non mi ha usato!”.
“Vabè, però devi ammettere la cotta”.
“Cazzo, che palle, Cristo, Giulia.”
Dopo queste 5 parole inizio a raccontare la storia (sempre ammesso che poi lo sia, una storia) dell’incontro con Cristina.
Claudio ride mentre gli descrivo i miei sentimenti da tredicenne e ci tiene a sottolineare il fatto che probabilmente sono invaghito di questa ragazza perché in realtà non la posso avere. Secondo lui io perdo interesse nelle ragazze nel momento in cui so di poterle avere.
Non so se abbia ragione o no, però il fatto che questa storia sia fumosa e sfuggente certamente la rende più fascinosa e, per quanto non dia peso ai racconti che riguardano Romeo, quello che mi rimane dentro è una sensazione di angoscia e di inquietudine quasi immotivata.
Giulia invece è per una linea più semplice e materialista, dice che Cristina è semplicemente pazza, che una persona normale non fugge così e, cosa più importante, non mi tira in mezzo a storie -secondo lei di fantasia- su scrittori e omicidi: “Soprattutto perché tu lavori per un editore…questa ha mangiato la foglia, vedrai che si ripresenterà, ti scoperà e poi ti confesserà che ha scritto tutta la storia di Romeo pregandoti di pubblicarla. Tu ci proverai e il Grande Capo ti dirà che piuttosto di pubblicare quella roba si fotterebbe una nutria.”
Le donne hanno sempre le idee chiare, l’ho sempre sostenuto io.
E il mio capo usa spesso metafore colorite.
Comunque, tra un piatto e l’altro, riesco quasi a convincerli che questa Cristina è uscita dalla mia vita e che mi è già passato tutto. O almeno così mi fanno credere, visto che Claudio non mi ascolta più perché è impegnato a litigare con il cameriere riguardo la cottura della bistecca e Giulia accenna un sorriso di circostanza mentre annuisce dicendo “se, se, se…”.
Finita la cena usciamo a fumare e poi ci incamminiamo lentamente risalendo il naviglio in direzione della Porta. Io penso che è bello ogni tanto passare del tempo con loro, mi sento bene, mi sento a casa.
Mentre soffio il fumo caldo fuori dal mio corpo, mi accorgo di come sia particolarmente freddo e secco il clima, cosa rara in una città che vive immersa nell’umidità più assoluta. Il vento sa di montagna e l’aria è elettrica, i capelli lunghi delle donne sono vaporosi e lucenti, mentre l’acqua del canale risplende riflettendo una luna che così accesa la si vede di rado in questa zona del mondo.
Un leggero mal di testa mi accompagna lungo il Corso, ma non mi spaventa, non è un attacco forte, lo so, sento che è una leggera emicrania, quasi piacevole, confortante. È un cerchio alla testa che sembra dirmi “tranquillo, ci sono qui io, oggi non c’è il male devastante, stai sereno e passa una buona serata”.
Mi viene da sorridere e lo faccio, nascosto dal bavero della giacca.
Giulia mi vede e scoppia a ridere: “Oh matto, che fai, ridi da solo?”.
“Pensavo…”, rispondo io.
La serata finisce poi a casa della coppia, tra una sigaretta e un bicchiere di whiskey. Io mi apro ancora un po’, raccontando loro i miei problemi con il mal di testa e dicendo che Cristina sarebbe stata la donna della ma vita, se solo l’avessi potuta avere e non si fosse dissolta nel nulla come una boccata di fumo.
Dopo qualche ora sembro un vecchio ubriacone da bar che racconta senza filtro alcuno i propri tormenti e le proprie paranoie; capisco che è giunto il momento di tornare a casa, sono abbastanza cotto.
Mi congedo abbracciandoli, sono passate le 3 da un pezzo e la mia bocca puzza di legno bruciato.
Ma sono felice, mi erano mancati.
E poi ogni tanto bisogna pure sfogarsi, raccontare le proprie storie, le proprie avventure. Anche quelle interiori.
Vivremmo per niente altrimenti. È per questo che esistono i libri, il cinema, gli amici. Per raccontare.
Tornando a casa mi sento Don Abbondio, cammino pensoso con il capo chino sul marciapiede cercando di scalciare lontano dalla mia via gli oggetti che trovo sull’asfalto come se fossero i pensieri negativi e i problemi che affollano la mia mente.
Alla mia sinistra due barboni litigano contendendosi un cartone di vino.
Io mi sento un puntino, piccolo, sovrastato da un milione di voci, di città, di storie, di universi infiniti.
Forse ho bevuto troppo Lagavulin.
Arrivato a casa mi accorgo che la testa inizia a farmi male sul serio, così decido di prendere due bombe di Almotriptan, fingendo di non ricordare tutto quello che ho bevuto durante la serata.
Mi siedo sullo sgabello e, mentre i muscoli della gola si comprimono per aiutare la discesa delle pastiglie lungo l’esofago, vedo di nuovo quella luce rossa intermittente.
Il messaggio in segreteria.
Un primo forte istinto mi dice di cancellare senza nemmeno porsi una domanda, ma poi cedo, e il mio dito si sposta dal tasto “delete” al triangolo che indica play.
Decido quindi di ascoltarlo, perché sono mezzo sbronzo, perché ho appena preso un farmaco ammazza fegato e, cosa più importante, perché sono stronzo.
Silenzio.
Rumore di fondo.
Poi quella voce.
Lo stomaco si chiude, mi tremano le gambe e mi sudano la mani:
“Ciao, sono io… sono Cristina… ho bisogno di te. Dobbiamo vederci, io non…non posso farcela da sola. Scusami, ti prego… non avrei dovuto trascinarti in tutto questo…scusa, davvero. Ma ho bisogno di te. Sono in Belgio, ti prego, incontriamoci…lo so che è folle, da pazzi…ma non so come fare. Ci vediamo fra tre giorni a Bruges, al Lybeer Hostel…cercalo…io sarò là, a mezzogiorno. Se non vuoi io ti capisco sai…detto così, dal nulla, è una pazzia che ti chiedo…ma sei il solo che mi può aiutare. Giovedì, a mezzogiorno. Lybeer Hostel. Bruges. Io sarò lì…”
L’Almotriptan mi risale in gola, amarissimo, mentre il cuore batte impazzito al punto che sembra debba dilaniarmi il petto ed esplodere fra le mie costole.
Sono frastornato, non capisco, devo riascoltare altre 3 o 4 volte.
La sua voce è inquieta, spaventata, ma il tono è pacato e quasi dolce, sembra più una gentile richiesta che un disperato sos.
Il tono fa a pugni con il contenuto, lo so mica se è un buon segno.
Cazzo.
Lo dicevo che questa è pazza, me l’ha detto anche Giulia, lei non sbaglia mai.
Ora, secondo lei, io dovrei partire per una città straniera per andare ad aiutare -come poi?- una quasi sconosciuta che è invischiata con un probabile assassino.
Siamo alla follia più totale, al degenero completo.
Non ci penso nemmeno.
Il giorno dopo Mara, la segretaria, riesce a sentire le urla del Grande Capo fin dal piano di sotto:
“… ma questo è l’ultimo weekend lungo, intesi!?! Non mi fotti più caro il mio giramondo! Ah no! Quando rientri mi sistemi tutto l’archivio della cantina! E te lo do io il weekend esotico, tra i ragni e la muffa! Tu e le tue richieste a cazzo di cane! Portami almeno della birra come si deve, altrimenti è la volta buona che mi ti levo dai coglionacci!”
“Sì, boss, grazie”
“grazie ‘sta ciolla…e mi raccomando, scura, per Dio!”
“Eh?”
“La birra, idiota, portamela scura, non mi piace il piscio di gatto, lo sai”
“ti voglio bene boss”
“vaffanculo”.
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2 commenti:
mi stai mettendo una certa curiosità. non so se l'avevo già detto.
ciao!
ciao caro, come stai?
e grazie per spendere sempre tempo sui i miei racconti ;)
tra l'altro nell'immagine del profilo sei proprio a Bruges ;)
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