Ecco il bacino primario, il ramo di ordine primo.
Tutto nasce dal Fascicolo. Ritrovato in circostanze poco chiare, è la prova dell'eterno ondulare del Pendolo.
Il mio ruolo non è importante, devo solo ricomporre i pezzi, riportarli al posto giusto. Perchè essi combaciavano, sono sicuro.
Il Fascicolo è un insieme di scritti, più o meno brevi, che Romeo ha steso durante la sua permanenza in città. Sono scritti a mano, su fogli piuttosto confusi, senza riferimenti temporali. L'unico segno che li riconosce è la NUMERAZIONE.
Ho cercato di dare un senso a questo materiale.
Questo è il primo racconto di Romeo:
# 1
Il giorno del mio funerale
27 aprile 2006, il giorno del mio funerale. Faceva caldo, terribilmente caldo.
Si crepava.
Avevo le ascelle completamente sudate e le gocce sulla fronte acceleravano pazze a 9.8 m/s² per andarsi a schiantare sulle fibre di cotone della maglietta.
Ero vestito di nero, intanto perché è uso vestirsi di nero ai funerali in segno di rispetto e cordoglio per il lutto, poi non volevo essere troppo appariscente. Mi piace restare nell’anonimato in certi casi, sapete com’è.
Comunque, ero lì che guardavo la gente piangere mentre mi sotterravano. Cazzo mi spiaceva veder quella situazione.
Ero morto, ma che ci vuoi fare, prima o poi tutti saliamo su di una mercedes.
Decisi di passare in rassegna le persone che affollavano il perimetro della fossa, così per rendermi conto della situazione.
Laura, mio Dio, erano 2 anni che non la vedevo. Che culone aveva, di quelli grossi e duri, come solo una donna piena di sé può avere. Grosso e duro, ma per niente rivoltante, anzi. Ci si godeva parecchio tra quelle natiche di carne dura.
In fianco a Laura potevo vedere chiaramente i miei amici, piangevano come delle fontane, qualcuno aveva come degli attacchi di panico, mentre l’unico tranquillo era Marco.
«Bravo Marco, non piangere. Non serve a niente. Dai, su, sto bene, dillo agli altri che non è successo niente»
Marco capì. Gli altri no. Non smisero di piangere. Cazzo, quanto piangevano, non mi sembrava vero che tutta quella gente piangesse così per me.
C’era il “secco” che piangeva con Marzia, c’erano Mirko e Daniele in un angolo disperati.
Rossi in viso, gli occhi di fuori, tutti bagnati di lacrime e sudore. Mi guardarono e sembrarono dirmi «è così bello vederti, ci sei mancato tanto». Me lo dicevano forte, lo urlavano sulla mia faccia. «Perché sei scappato via?!?!».
Ma io non ero scappato, ero lì. Vedevo tutti e cercavo di rasserenarli.
Mi diressi verso i miei genitori, mia madre in agonia e mio padre come non l’avevo mai visto. Era fuori di testa, solo rimaneva lucido e silenzioso. Ma aveva la faccia di quello che si è rotto. Intendo dire che si è rotto dentro, spezzato, frantumato, denaturato, bruciato, arso, inciso, scavato, lacerato, corroso.
Parlando con i miei familiari, riuscii a tranquillizzarli tutti, meno mio padre ovviamente, il quale rimaneva in uno stato di silenziosa e distaccata sofferenza.
I miei fratelli mi salutavano invece con tranquillità, chiedendomi con un sorriso cosa si prova a morire, se si sente male, se si vede qualcosa “aldilà”. Io risposi che non lo sapevo proprio che cosa si prova. E in effetti non ne avevo la più pallida idea.
Ad un certo punto del mio dialogo fui interrotto da un’amica, Giulia.
Era sconvolta letteralmente. Trasudava dolore. Ma chi cazzo se l’aspettava di causare tutta questa sofferenza?? Non lo avrei mai fatto, se l’avessi saputo. C’erano CENTINAIA di persone col capo chino al suolo, bruciate dal sole, con occhiali scuri macchiati dalle lacrime e dalle impronte delle dita. Centinaia di persone che erano lì per me (bhè no magari qualcuno era lì perché ci doveva stare o perché “ci andavano tutti”), che responsabilità di merda, far male alle persone.
In ogni caso Giulia si diresse verso di me urlandomi contro, era incazzata, ed era stata male.
Una femmina in queste condizioni è come l’olocausto nucleare.
Mi si aggrappò al collo. «che cazzo di scherzo è questo?!?!? Cazzo ci fai qui?!?! Sei morto o sei vivo?!?! Chi sei tu?!?!».
Insomma le risposi: «non posso neanche partecipare al MIO funerale?», «non ho mai posseduto un cazzo, questo almeno lasciamelo. Sarò libero di venire e andare quando mi pare?».
Praticamente, avevo capito che era meglio lasciar perdere, la gente era troppo sconvolta. Dovevo aspettare e lasciare che la mia sepoltura finisse nel più canonico dei modi.
Pensavo che mi sarei andato a trovare una volta ogni tanto con qualche amico, almeno all’inizio. Poi avrei continuato le visite con i parenti, fino a continuare coi genitori quello che si può definire un vero e proprio pellegrinaggio.
Avrei visto la mia lapide arricchirsi di foto e di oggettini, come si usa fare, soprattutto con i defunti di giovane età.
A che serve avere una bella tomba?
Una bella lapide, con tanti ricordi. A che serve?
Far sapere alla gente che ascoltavo la musica, che ero un tipo sportivo. A che serve?
Forse il significato non lo riuscirò a cogliere mai.
In fondo, sono morto.
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